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La musica riscopra il mare dei nostri padri

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Ignazio Stagno
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Noi non ci sappiamo vestire, non ci sappiamo spogliare e non ci sappiamo raccontare nei bar davanti al mare». Ivano Fossati in “Questi posti davanti al mare” forse in pochi versi spiega bene qual è il rapporto tra lo scroscio dell’acqua e chi è nato e cresciuto in “Riviera”. Quella stessa riviera che si affaccia sul Mediterraneo che di fatto da qualche tempo nelle canzoni di casa nostra viene raccontato come “cimitero” dei migranti. Ecco, qui nessuno vuole negare il dramma delle migrazioni, nessuno vuol togliere alla musica il ruolo di declinare i nostri tempi, ma da qualche tempo la musica ha rimosso dalle parole e dagli intrecci dei testi proprio quel Mare Nostrum che in tanti hanno saputo raccontare in passato lasciandoci il « conforto di una folata di scirocco mentre cantavano di «cuori d’avventura», di «gamberoni rossi che sono un sogno» mentre il «sole è un lampo giallo sul parabris», per dirla alla Paolo Conte che sognava mare di Genova. In ordine di tempo gli ultimi sono stati i Subsonica, qualche giorno fa, ad annunciare un nuova canzone dedicata al Mediterraneo, “Nessuna colpa”, questo il titolo, per sostenere le attività dell’ong Sos Méditerranée.

E prima dei Subsonica erano stati i Modena City Ramblers a cantare le morti in mare e le operazioni delle ong con l’album “Altomare” in cui addirittura un pezzo è “Mediterranea”, interamente dedicato all’ong di Casarini. Ecco, da qualche tempo, chi interpreta la musica di casa nostra ha un po’ scordato che quel mare che appare sulle cronache per naufragi e sbarchi è ancora un immenso terrazzo su cui si affacciano le città rivierasche. Città fatte di ciottoli e “basoli” bagnati dal mercato del pesce, di puzza di nafta dei porti, di corde e cime dei pescatori abbandonate sui moli, di immensi grovigli di porte e persiane che nascondono il cielo azzurro tra case e vicoli. Il Mediterraneo è e resta, al di là della cronaca, un romanzo vasto di avventurieri, di rotte, di naviganti, ma anche di popoli latini, slavi, greci e mediorientali che si riconoscono reciprocamente come appartenenti ad un’unica identità territoriale che sopravvive con le sue caratteristiche nonostante l’incombere della stretta attualità. L’ultimo grande lavoro discografico dedicato al Mare Nostrum è “Creuza de ma” di Fabrizio De Andrè. Alle ombre di facce di marinai chi è lì, a terra, al loro rientro, offrirà «frittûa de pigneu giancu de Purtufin, çervelle de bae ‘nt’u meximu vin, lasagne da fiddià ai quattru tucchi, paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi / frittura di pesciolini, bianco di Portofino, cervelle di agnello nello stesso vino, lasagne da tagliare ai quattro sughi, pasticcio in agrodolce di lepre di tegole».

“Faber” non è stato l’unico. La musica mediterranea appartiene anche ad Eugenio Bennato che insieme alle migrazioni ha anche cantato il mare delle guerre contro i Borbone raccontando dello “zolfo di Sicilia e i cantieri a Castellammare, e le fabbriche della seta e Gaeta da bombardare”. E proprio in questi giorni Mauro Pagani (che di “Crueza de ma” è “padre” insieme a De Andrè) ha deciso di riportare quel disco, tra i dieci album più importanti degli anni Ottanta, all’Auditorium di Roma. Il tutto per immergere le nuove generazioni in quelle culture del Mediterraneo che nella musica si portano dietro bouzouki, tamburi persiani, ma anche mandole, oud e volti segnati da rughe, mani spellate, sudore della fatica delle reti fino alle “calate dei vecchi mori”. Per tornare a cantare quel, anzi questo Mediterraneo forse bisogna ritrovarne il senso di appartenenza che si è perduto. Anche tra le note e le parole. Del resto è impossibile non fare i conti con «questi posti davanti al mare, con questi cieli sopra il mare. Sin da Pavia si pensa al mare, sin da Alessandria si sente il mare. Dietro una curva improvvisamente il mare». Stupiamoci ancora.

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