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Il mistero sul papà di Diabolik: sparito nel nulla da sessant'anni

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Marco Respinti
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Un talento risucchiato dal nulla prima ancora di conoscere il successo, fra delitti e conventi, pornografia cippettona e volti da immaginetta. Vero che sembra un pulp seriale o un filmaccio da emittenti di provincia? Invece è tutto vero. Quegli ingredienti, sufficienti a vellicare pruderie piccolo borghesi, vengono cucinati e salati quanto basta nella scrittura sobria del romanzo Non sono stato io: 190 pagine pubblicate a Milano da If Edizioni, specialista in fumetti, per la firma di Gianni Bono e Raffaele Mangano. Il primo è una rockstar delle nuvole parlanti, ideatore di kermesse che hanno fatto storia, autore di guide e monografie imprescindibili. Il secondo non meno: direttore di periodici e conduttore televisivo, ha pubblicato una decina di libri di successo e presieduto il Premio Brancati.

Ora, il soggetto di Non sono stato io è nientemeno che il re dei ladri e degli assassini dei comics italiani: Diabolik. Anzi, è Angelo Zarcone. Chi? Il primo, magistrale disegnatore del criminale in calzamaglia. Fu lui a dare realtà fittizia al personaggio ideato da Angela Giussani nel 1962, presto affiancata dalla sorella Luciana. Gli donò persino lo sguardo che uccide. Sono infatti proprio di Zarcone gli occhi di ghiaccio con cui Diabolik contempla in silenzio tanto la sensuale Eva Kant quanto le vittime del suo pugnale sibilante. Zarcone disegnò il mitico numero 1 di Diabolik e sparì. In quell’autunno di 62 anni fa nemmeno finì le tavole, ma il diavolo, non la bravura, sta nei dettagli.

A Milano Zarcone faceva la fame. Dipingeva vendendo poco e niente. Per pagare pigione e bottegai scarabocchiava trivialità nude per certi giornaletti. Era soprannominato «il Tedesco» per via di un bimbetto biondo e algido, chi fosse non si è mai capito, che a volte portava in redazione. Gino Sansoni pubblicava cose di qualità e rotocalchi fatti di vocaboli sensazionalistici da “nera” (il noir è tutt’altra eleganza) e foto scollacciate “rubate” soprattutto in Francia. Aveva gran fiuto. Ex aspirante playboy (parola estinta, da MoMA come il cinquantino Vespa a due tempi), a Cervia aveva barattato un fisico non adatto al ruolo con una milanesità finta sposando Angela Giussani. Coniugi e soci, Gino e Angela si lanciarono in tante intraprese, fra cui appunto Diabolik. Era stato proprio Sansoni a scritturare Zarcone.

Scomparso «il Tedesco» come un fantasma, Angela, con un palmo di naso e il becco asciutto, incaricò persino il mitico Tom Ponzi, ma niente. Volatilizzato. Un decennio dopo (ma lo si saprà tanto più tardi) fu avvistato a Palermo e poi ancora nulla. L’ultima traccia la lasciò a Roma, altri vent’anni dopo, e qui il giallo diventa mistero fitto ed emozionante. Zarcone ritrasse Josemaría Escrivá de Balaguer, il santo fondatore dell’Opus Dei, davanti a un altare preconciliare a dir Messa, e lo donò alla basilica di Sant’Apollinare. Poi ancora l’eclissi, stavolta forse per sempre.

Da Palermo un tale di nome Davide Tedesco (una coincidenza vera che pare finta) ha messo Bona e Mangano sulla pista giusta. Tutto con una e-mail. Nei decenni se ne erano dette tante. Illazioni, fantasie, bugie, persino che Zarcone non sarebbe mai esistito. E invece è stato di carne e sangue, lo testimoniano padre Luciano, lo testimoniano le suore missionarie di quel convitto che nel capoluogo siciliano diedero tetto e pane a quell’anima in pena senza un soldo in tasca.

Parlo con Mario Gomboli, patron della casa editrice Astorina, erede delle sorelle Giussani. È stato lui, l’editore di Diabolik, a presentare Bono e Mangano l’uno all’altro.
Gli chiedo quanto ci sia di vero in Non sono stato io. «Tutto», risponde. Telefono allora a Mangano e gli domando se ha mai capito il motivo della sparizione di Zarcone. La risposta è di Tom Ponzi, nelle prime pagine del romanzo: «Si tratta di una persona per bene». Involontariamente il pittore palermitano Pippo Madè chiosa verso la fine del libro, compiendo un cerchio: «Il nostro gruppo di amici non vedeva di buon occhio le pubblicazioni che parlavano di assassini e delinquenti, dove trionfava il male. Il male esiste, ma alla fine, per come io penso, deve sempre trionfare il bene. Ecco, forse Angelo si era vergognato di quei lavori».

Di quell’ambulante che dormiva in una stanza sporca e sgangherata affittata in zona Porta Genova a Milano, cercando di vivere d’arte davanti alla bella chiesa Sant’Eustorgio, resta il ricordo pungente in chi gli ha voluto bene e in un esercito di fumettari per cui è leggenda. Amava con amore da altri tempi un’Alessandra non identificata, che soprannominò «Gilda», peri capelli come Rita Hayworth. Intanto Diabolik continua imperterrito a delinquere, figlio perenne di quella borghesia milanese del dopoguerra, arricchita e pettegola, dove l’industriosità si mescolava ai bauscia e la morale vera al perbenismo olezzante troppo dopobarba. L’ariete del Sessantotto, non meno borghese, travolse tutto. Zarcone lo intuì per primo e fuggì per ripararsi nelle braccia di un santo. Capito il titolo del romanzo?

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