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Gabriele D'Annunzio, il custode del disordine e degli opposti

Daniele Dell'Orco
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Per uno strano scherzo del destino, Claudio Siniscalchi, nell’audace tentativo di trovare una definizione che potesse fare da minimo comune denominatore tra tutte le anime di Gabriele d'Annunzio, ne ha scelta una, “custode del disordine”, ideata da Curzio Malaparte. Che di d’Annunzio era un odiatore. Malaparte scelse di titolare in quel modo un suo scritto dei primi anni Trenta dedicato al “trasformismo” politico nell’Italia liberale. E Siniscalchi ha scelto di riprenderlo per la sua ultima opera: D’Annunzio custode del disordine (Oaks Edizioni, pp.132, euro 15). In effetti, tra tutti gli epiteti che siano mai stati affibbiati al Vate, l’ossimoro malapartiano è in grado di tenere insieme tanto lo spirito conservatore quanto quello rivoluzionario di un inclassificabile per natura.

In questo incisivo saggio, Siniscalchi analizza il percorso del poeta attraverso il concetto di “rivoluzione conservatrice”, ben spiegato nella sua versione italiana da Marcello Veneziani già nel 1987 in un testo di gran successo. Veneziani, che per il libello di Siniscalchi firma la prefazione, parlando del d’Annunzio politico ne ricorda il passaggio repentino da destra a sinistra (altro tratto che lo accomuna alla sua nemesi, Malaparte), e scrive: «In quel percorso aveva già maturato l’idea di una politica eroica ed estetica, in cui la moltitudine e l’aristocrazia, la tradizione e la rivoluzione, la nazione e la giustizia sociale si sarebbero incontrate nella sintesi ardita e creativa dell’artista-politico. Erano quelle le basi della “rivoluzione conservatrice”».

 

 

Questa apparente contrapposizione, in realtà, riflette perfettamente la fusione degli opposti che ha animato non solo la visione dannunziana, ma ha influenzato, negli anni successivi, altre figure e poderosi eventi storici. D’Annunzio trovava nell’incontro tra opposti l’energia creativa che alimenta la storia, galvanizzando e potenziando le forze antagoniste. Il suo concetto di “vita come opera d’arte” si espande dall’individualità dell’eroe o dell’artista “superuomo” alla moltitudine delle piazze, dei combattenti e delle trincee: fu proprio in quei contesti che emerse, ad inizio Novecento, il “d’Annunzio capopopolo”, una figura descritta alla perfezione da Gioacchino Volpe e ripresa negli studi di Renzo De Felice. Siniscalchi coglie in questa coincidenza di opposti l’essenza dell’«ideologia italiana», una visione condivisa anche da altri intellettuali e politici come Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Benito Mussolini, lo stesso Malaparte, e anticipata da Alfredo Oriani, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci, tutti impegnati a modo loro nel cercare di conciliare nazionalismo e socialismo con accenti imperiali e militari.

Allargando ancora più il campo, è bene ricordare che la teorizzazione di questa crasi non fu solo un pallino degli “intellettuali d’azione” (stessa folgorazione che colpì ad esempio Filippo Tommaso Marinetti, Filippo Corridoni, Berto Ricci), ma persino Francesco Crispi che, a differenza di Giovanni Giolitti, incitava in tempi non sospetti alla mobilitazione nazionale. Questo orientamento, come evidenziato da Siniscalchi, tracciava i contorni di una “sinistra nazionale”, mediterranea, risorgimentale, garibaldina e autoritaria. Siniscalchi analizza poi i profili di d’Annunzio, Giovanni Gentile e Antonio Gramsci, facendo leva sulle decisive interpretazioni filosofiche di Augusto Del Noce, uno dei maggiori studiosi transpolitici del Novecento italiano.

Il saggio scandisce le diverse fasi della parabola dannunziana, suddividendo il percorso esistenziale del pescarese in quattro filoni: c’è il d’Annunzio letterato, l’esteta decadente, il poeta condottiero che si spinge fino all’impresa di Fiume e, infine, il Vate, patrimonio di tutti gli italiani com’è ormai giustamente (e finalmente) riconosciuto dalla storia. Siniscalchi nel testo ricorda poi le valutazioni di critici illustri come Benedetto Croce e Luigi Pirandello, le ironie dei futuristi (come con molti altri alpha, il Vate ebbe un rapporto problematico pure con Marinetti), e pone d’Annunzio e il suo “estetismo decadente”, vista la continuità con quelli di John Ruskin, Walter Pater, Oscar Wilde, Richard Wagner, Friedrich Nietzsche, al centro di una complessa e originale comprensione della modernità dal respiro internazionale.

A differenza di quello nietzschiano, però, lo Zarathustra di d’Annunzio non rimane in solitudine, ma parla alle masse, le anima, le conduce all’azione. Ecco perché, seppur intriso di nazionalismo, il pensiero dannunziano si colloca nella più ampia “rivoluzione conservatrice” europea, come osservato da Ernst Nolte, ed è fortemente influenzato da autori e correnti sparsi per tutto il Vecchio Continente. Nel finale, Siniscalchi riflette sul rapporto tra d’Annunzio e il fascismo, definendolo “la pietra tombale” posta a lungo sulla figura del poeta. Oggi, di contro, di fronte all’inevitabilità della sua grandezza, si tende sempre ad insistere sulla sua presa di distanza dal regime. La questione però, ricorda Veneziani, non è tanto stabilire se d’Annunzio sia stato fascista, quanto piuttosto riconoscere il contrario: che il fascismo stesso abbia avuto tratti dannunziani.

 

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