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San Damiano, storia di una parabola di una Roma in bilico da sempre tra eternità e abisso

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Ginevra Leganza
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A ridosso del monumento al Papa, Karol Wojtyła, un altro polacco s’aggira. Ed ecco, non è santo, costui, bensì diavolo. Intrappolato e filmato nel gorgo di Roma Termini. Damian, senzatetto, trentacinquenne polacco, aspirante cantante in Italia, è il frontman del documentario di Gregorio Sassoli e Alessandro Cifuentes, San Damiano, che verrà presentato il 23 ottobre, al MAXXI, nell’ambito della Festa del Cinema di Roma.

E che, a dispetto del nome, è giustappunto un demone. Protagonista d’una catabasi nell’inferno lunga due anni. Primo attore d’un viaggio, talvolta vagabondaggio, nel tartaro che si estende fra i binari e le terme di Diocleziano. Qui dove Damian vive ma non dorme – il suo alloggio è in cima alle Mura Aureliane – e dove però sogna il successo. All’incirca come il protagonista del film di Matteo Garrone – ve lo ricordate – Reality, così “San Damiano” cerca la sua fama. Il suo Grande Fratello. Circonfuso dal calore delle groupies di Roma Termini: le prostitute della stazione.

 

Dalla torre sulle antiche mura dove, così dice Damian, «gli sfigati vengono da millenni» - si snoda quindi la discesa nel sottobosco. Nella foresta di cocci aguzzi, di vetri rotti. Nell’umanità appisolata che cinge la stazione dove tutti noi, che a Roma ci siamo nati o molto più spesso inurbati, transitiamo in apnea sino al predellino del treno. Spaventati dagli uomini e dalle donne che i due registi mettono a fuoco, invece, con compiacimento, con voyeurismo, con l’ebbrezza tipica che possono dare – incontrati perla prima volta – i reietti. Ed è infatti l’eterno ritorno del neorealismo, questo docu-film che rimesta l’Accattone di Pasolini con L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria.

È il ricorso storico, e cinematografico, dei tossicodipendenti dediti a ramingare tra le rovine e a bazzicare San Pietro come i più comici Ugo Tognazzi e Nerina Montagnani ne I nuovi mostri. I due barboni – “mammina e mammone” – che raccattano rifiuti come gioielli, che motteggiano i poliziotti e che, a fine giornata, tornano a nanna nell’immondizia. È insomma l’eterna storia d’una capitale fallita, San Damiano. O peggio, dell’eternità sempre sul ciglio dell’abisso. Coi gabbiani che svolazzano, come avvoltoi. Coi ratti che s’insinuano, tra i falò dei senzatetto. Con coca ed eroina che esaltano gli amori nati nella monnezza.

Come quello, appunto, fra Damian e Sofia, mendicante trasfigurata in sovrana del cuore. Dulcinea d’un Chisciotte presto accusato d’incendio doloso, denunciato – da lei, gonfia di lividi – per lesioni personali, infine sottoposto ai domiciliari e perciò costretto a scontarli in carcere perla sua condizione di senzatetto. Per Sassoli e Cifuentes, Damian non è solo santo ma addirittura sciamano. Guru demenziale delle tenebre. Eccitante della Roma by night in forza del pericolo, dell’assurdo, dei balli del qua-qua e degli ululati alla luna. Ed è insomma l’it-boy d’una Termini sulle prime diffidente ma poi subito pronta, ora come allora, a offrirsi all’obbiettivo.

Epilogo: “San Damiano”, col sogno del rap, tornerà in Polonia. Internato in un ospedale psichiatrico (decadente, tal quale Termini) dove non potendo più immolarsi sull’altare del neorealismo – o del neo-Reality – scriverà quattro romanzi, imparerà a produrre musica dal pc, sentirà i suoi due amici, Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, ogni domenica per telefono e coverà sempre il sogno del successo. Metafora inconsapevole d’una città che si crede eterna, santa, degna di glorie. Allegoria vivente d’una capitale, la nostra Roma, consacrata alla dannazione. Finta santa. A dire il vero un inferno.

 

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