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Souvenir, svelato il meccanismo mentale che ci spinge a comprare paccottaglia

Luca Beatrice
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L'etimologia francese ha a che fare con il ricordo, il ricordare, e infatti lo scrittore Georges Perec nel piccolo libro Je me souviens (1978) annotava 480 frasi di fatti o sensazioni depositati negli anfratti della memoria, lasciando bianche le ultime pagine per consentire al lettore di inserire i propri ricordi. In una società in cui le parole rimandano comunque alle immagini, anzi acquisiscono potere proprio attraverso le immagini, il tema del ricordo incrocia quello della “cosalità”.

Un viaggio, una vacanza, un luogo di particolare interesse innescano l’occasione e il desiderio di portarsi a casa, là dove si vive abitualmente, nel posto che funziona come nostro raccoglitore di ricordi, l’oggetto che testimoni l’esserci stato. Più agli altri che a se stessi. Il fenomeno è esteso nel tempo e nello spazio, banalmente si può dire che esiste da quando la nostra specie ha cominciato a viaggiare, dunque da sempre. Del giornalista e saggista americano Rolf Potts è stato tradotto in italiano per Il Saggiatore l’agile Souvenir che non a caso aggiunge nel sottotitolo “una storia culturale”, ben oltre dunque l’apparente banalità del fenomeno.

 

 

La necessità del ricordo, insomma, si motiva con ragioni differenti. Nel V arrondissement di Parigi si trova il negozio Par’ici specializzato nella vendita di riproduzioni della Torre Eiffel: portachiavi, piatti, palle di neve, portacenere, carillon, ombrelli, cappelli, sciarpe, magliette. Difficile non definire kitsch questa mania di comprare il più banale e scontato degli oggetti dopo un viaggio nella capitale francese, spendendo da 50 centesimi a quasi 900 euro, eppure a giudicare dal giro d’affari e dalla quantità di punti vendita concentrati nel quartiere, senza contare le bancarelle degli abusivi militarmente organizzati nei pressi della Torre con l’offerta di oggetti se possibile anche più brutti (e più costosi, data la prossimità), c’è davvero un sacco di gente che non rinuncia all’acquisto, qualcuno ridendoci su, qualcun altro (cioè la maggioranza) ben convinto perché quella miniatura gli piace davvero perché gli ricorda i giorni felici della sua vacanza.

L’attrattiva del souvenir si sposa al fascino del tipico. Come memoria dell’Africa compro una maschera tipica in legno dal valore simbolico, su cui l’abile venditore ha costruito una storia di cui non ho capito quasi nulla ma mi affascina lo stesso; non contento, raccolgo pietre, conchiglie, sabbia (dalla Riviera romagnola o dalla Versilia non farei lo stesso, al limite una camicia in saldo) che metterò nostalgicamente sottovetro, mi basta andare in Marocco per cedere al richiamo degli ambulanti e riempire le valigie di ciotole, braccialetti di perline, batik, apribottiglie ricavati (forse) da zanne di facocero. Peccato che i tre-quarti e forse più di tutti questi oggetti tipici, frutto ipotetico del lavorio umile degli artigiani locali, è invece prodotto in Cina e distribuito ovunque sul mercato globale, di qualità scadentissima, impossibile rintracciarne un valore simbolico.

E pure impossibile declinare il termine “collezione” a proposito della raccolta di souvenir; il collezionista ha sempre la speranza che l’oggetto prescelto, cercato e trovato spesso con difficoltà, aumenti di valore nel tempo, si tratti di opere d’arte, antiquariato, orologi, automobili. L’accumulatore di souvenir è mosso principalmente dal bisogno di ricordare e condividere, come il famigerato autore di diapositive sui pesci nel Mar Rosso, nelle tragiche serate, settembre degli anni ’80, quando ti costringeva a guardarle, commentandole insieme alla fidanzata che giustamente poi lo ha lasciato.

All’epoca dei pellegrinaggi cristiani in Terra Santa in molti trafugavano la terra a manciate, nella convinzione fosse stata calpestata dai piedi del Messia. Il tifoso che ha vinto la Coppa ritaglia un pezzo di prato e lo nasconde nello zaino per poi mostrarlo come un trofeo, spesso ti propinano un quadrato di cemento come testimonianza del Muro di Berlino (se fossero stati davvero tutti autentici non sarebbe bastata la lunghezza della Muraglia cinese).

A differenza dell’arte il souvenir non avverte il bisogno di autenticità, non servono certificati che attestino veridicità e provenienza, non c’è esclusività anzi più gli oggetti funzionano sul mercato più ne vengono prodotti, tutti uguali e brutti. I turisti, peraltro, tendono a vedere le culture locali come caricature di altre epoche ed espressione dell’esotico.

Ora che non si vendono più cartoline, il livello d’ingresso nella scala del souvenir, le nostre foto riusciranno a sostituirle nell’emotività di chi le invia (per informarti di aver viaggiato) e di chi le riceve (magari ci vado anche io l’anno prossimo)? No, perché svaniscono troppo in fretta, il compito resta allora alle cose che prendiamo per noi o da regalare agli altri, talmente felici in quell’attimo da non accorgerci chele stesse si trasformeranno in una «mesta accozzaglia di oggetti sperduti».

 

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