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Ricky Tognazzi si confessa: "Il diritto alla cazz***, la lezione di mio papà Ugo"

Leonardo Iannacci
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«Per girare un film ci vuole passione, ma soprattutto coraggio». Ricky Tognazzi, che non chiameremo “figlio del grande Ugo” anche se ci fa da Cicerone alla bella mostra monografica dedicata a suo padre a Rimini, è uno dei cineasti più versatili e intelligenti del nostro cinema. Questione di Dna. Mentre osserva compiaciuto l’esposizione “Ugo di noi”, organizzata nell’ambito della “Terrazza della Dolce Vita”, il salotto condotto da Simona Ventura e da Giancarlo Terzi al Grand Hotel, Ricky ha voglia di raccontare Ugo, ma soprattutto il suo ritorno dietro la macchina da presa insieme alla moglie, Simona Izzo.

Ricky, è bello vedere come suo padre venga sempre ricordato con affetto. Ma lei cosa sta facendo in questi giorni a Palermo?
«Non mangio solo cannoli... Stiamo girando un film che si intitola “Francesca e Giovanni”, è la storia di Giovanni Falcone vista attraverso gli occhi della moglie. Francesca Morvillo è stata un’eroina, una donna magistrato che ha combattuto la mafia ed è stata uccisa con il marito e altri tre uomini a Capaci. Per questo dico che oggi ci vuole anche coraggio a raccontare storie al cinema».

 

 



Un cinema ben diverso rispetto a quello di Ugo, vero?
«Le dò un dato: all’epoca di papà si giravano 300-350 film all’anno, oggi non si superano le 50 pellicole. Alcune anche bellissime, ma è un altro cinema».

Oggi la televisione impera?
«Le fiction soprattutto, raccontano loro le realtà delle nostre vite, le storie o i personaggi un tempo narrati al cinema di genere. Hanno occupato quegli spazi narrativi».

I film si vedono anche sul telefonino...
«È una conferma che tutto è cambiato. Tv e internet hanno serializzato la magia del cinema. Purtroppo certi racconti hanno vinto sulla qualità delle storie, sugli approfondimenti».

È così difficile girare oggi?
«Il cinema è un’industria e dovrebbe essere rispettato meglio. In Francia la politica aiuta il nostro lavoro mentre in Italia, a torto o a ragione, si pensa sempre che le sovvenzioni statali siano per film inutili. In parte è sbagliato».

“Francesca e Giovanni” è un film importante, che affronta temi delicati. È più difficile girare film come questi rispetto a commediole che, magari, assicurano facili incassi?
«Mio padre mi ha insegnato tante cose e, fra queste, quella di non avere paura nel raccontare storie originali, borderline, di confine. Ma le vicende di Falcone e di sua moglie fanno parte della nostra storia».

Gli attori che ha scelto per questo nuovo film?
«Primo Reggiani nel ruolo di Falcone ed Ester Pantano in quello di sua moglie. Stiamo girando in Sicilia e il film dovrebbe essere nelle sale a Natale».
Ugo ha interpretato e diretto titoli indimenticabili.

Ne dovesse scegliere tre?
«Solo tre? Beh, da attore direi “I mostri”, “Romanzo popolare” e “La donna scimmia” di Ferreri. Con un jolly: “Amici miei”. Poi ho sempre ammirato l’Ugo regista perché ha diretto film non facili, rischiosi e, quindi, coraggiosi. Come “Il fischio al naso”».

Gli amici di Ugo: Vittorio Gassman era quello più vicino?
«Erano amici. Diversamente amici. Ugo ammirava la cultura e la teatralità di Vittorio.
Non si rubavano i ciak, si rispettavano e hanno girato film memorabili, pensate per l’appunto a “I mostri” o “Innome del popolo italiano”. che ha precorso il tema della magistratura che angaria un imprenditore innocente».

Perché Ugo è considerato uno dei colonnelli della risata del nostro cinema?
«Perché ha interpretato una varietà incredibile di ruoli. Aveva una vitalità creativa unica e non ha mai avuto paura nel disegnare personaggi anche scomodi. Pensate a “Il vizietto”. Sin da bambino me ne sono accorto. Nel 1963 ho interpretato suo figlio ne “I mostri”, anni dopo ho recitato in altri suoi film e ne ho annusato la genialità».

Oggi c’è un attore che ricorda Ugo?
«Non ha avuto il trascorso comico che aveva mio padre ai tempi della rivista, ma direi che Francesco Favino lo ricorda per fisicità».

Il dolore più grande a Ugo lo diede Federico Fellini, vero?
«Per anni Fellini gli ha fatto pensare che sarebbe stato il protagonista di un film: “Il viaggio di G. Mastorna”. Come una bella donna che illude ma poi scompare. Ugo provò dolore, poi si rappacificarono».

Gli ultimi tempi di Ugo, morto a soli 68 anni, sono stati difficili: era in preda a una forte depressione?
«Sì, e ne ha sofferto molto. Come Gassman. Ricordo lui e Vittorio immobili, muti, osservare per ore un vaso senza dire nulla, in preda a questo topo che rodeva il loro petto. Lei mi dà l’occasione per lanciare un appello a proposito di questa patologia: non si abbia più paura di parlarne, si faccia outing e non ci si vergogni. La depressione è una malattia come altre».

Cosa le ha detto di non fare mai al cinema, Ugo?
«L’attore. E difatti dopo alcuni film mi sono messo dietro la macchina da presa».

Invece che cosa porta nel cuore dei suoi consigli?
«Il diritto alla cazzata. Nel 1979 si accordò con il giornale satirico “Il Male” per pubblicare finte prime pagine dei quotidiani italiani con la foto di Ugo arrestato e un titolo a nove colonne: “Tognazzi capo delle Brigate Rosse!”. Il sommario recitava: “Raimondo Vianello: Ugo è pazzo ma lo perdono”. Quella era la stagione dissacrante e meravigliosamente iconoclasta di papà, altri tempi davvero. Ma il diritto alla cazzata ce l’ho nel cuore».

 

 

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