Mike Bongiorno, i segreti dell'uomo che ha unito l'Italia
Dal 17 settembre, a Milano, al Palazzo Reale, avrà luogo una mostra intitolata “Mike Bongiorno 1924 - 2024”, in occasione del centenario della nascita del popolare presentatore e uomo di spettacolo, indiscutibilmente il re del quiz televisivo in Italia. “Mike”, come lo chiamavano tutti gli italiani, merita sicuramente questa esposizione che, attingendo a materiali concessi anche dalla Fondazione che porta il suo nome, proporrà ai visitatori un vero e proprio tuffo nel passato di un’Italia sicuramente scomparsa, ma che ciononostante merita di essere conosciuta, ricordata e celebrata.
Chi era Mike, e qual era la “sua” Italia? Michael Bongiorno nacque a New York da madre torinese e padre italo-americano. Alla separazione dei genitori sbarcò a Torino, e da lì, completati gli studi superiori, cominciò la sua carriera prima nel giornalismo - liberandosi con un breve corso di dizione della pronuncia americana - e cominciando ben presto a presentare, alla radio, il genere di intrattenimento per il quale era tagliato come nessuno, con il quiz “Il motivo in maschera”, orchestra diretta dall’indimenticabile Lelio Luttazzi. Ora, la cosa bella di Mike è che, in base all’anagrafe, ogni italiano ha il suo: il Mike di “Lascia o raddoppia?”, quello di “Rischiatutto”, quello di “Scommettiamo” e di “Flash”, poi, con il passaggio alla Fininvest, quello di “Superflash”, “TeleMike”, e “La Ruota della Fortuna”. In particolare la prima di queste trasmissioni, che andò in onda a cominciare dal 26 novembre 1955, proseguendo fino al 1959 (e fu spostata dal sabato al giovedì, perché gli esercenti di locali pubblici si vedevano diminuire gli incassi proprio nella loro serata di punta: invece di uscire, gli italiani cominciavano a stare a casa incollati alla televisione!) rimane una pietra miliare, non solo nella storia del piccolo schermo.
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Il quiz televisivo nazionale come fatto di interesse collettivo, in grado di influenzare i comportamenti, di creare un vero e proprio mito condiviso, cominciò a creare seri complessi o vere e proprie invidie in chi si riteneva di essere, per diritto divino, investito della responsabilità di formare le masse: gli intellettuali. Non naturalmente i veri intellettuali- quelli, di influenzare le masse, in un certo senso se ne sono sempre fregati - ma quelli un po’ veri un po’ falsi, come Umberto Eco, uomo dalla cultura tanto vasta quanto poco profonda - celebre un suo strafalcione, quando scrisse che la Quinta di Beethoven comincia con un colpo di timpani (per fortuna il buon Ludwig non era così rozzo) - il quale, piccato che un piccolo-borghese italo americano, un uomo “medio”, come lo definiva con disprezzo, avesse tanto seguito presso gli italiani, e per di più con un programma non privo di un contenuto colto o perlomeno di erudizione (un concorrente di quiz deve pure avere studiato, non basta “essere se stessi” come andrà di moda negli show dell’avvenire) compose se non il suo libro più importante di certo il suo più famoso e citato: “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, che dietro il titolo hegeliano-husserliano nasconde un grande classico dell’intellettuale italiano che gioca al piccolo Adorno, la critica dell’entertainment, dello spettacolo popolare, di massa, insomma, più o meno la stessa cosa di quando su Twitter/X elevati pensatori stroncano Achille Lauro a Sanremo (oppure lo elogiano alle stelle, processo inverso ma equivalente).
Dalla torre della nostra storia contemporanea non butteremmo né Mike né Eco, naturalmente, ma non c’è dubbio che l’attacco del secondo fu alquanto goffo, se non altro perché Mike aveva la sua carta vincente proprio nel fatto di portare senza inibizioni la sua maschera di uomo medio, cosa che, del resto, era. Uomo medio, che non vuol dire babbeo: le sue leggendarie gaffe, vere o costruite che fossero, non cancellavano una persona che i suoi studi li aveva fatti, e che, senza sfoggiare, come facevano i suoi avversari incorrendo talvolta in errori peggiori delle sue gaffe (per i pedanti: per i termini stranieri importati nella nostra lingua ci piace di più la forma invariabile, senza plurale; così del resto preferiva anche Mike, e lo omaggiamo volentieri) aveva una buona cultura e, cosa non da poco per un uomo che negli anni Cinquanta “entrava nelle case degli italiani”, come si dice, parlava una lingua corretta, pulita, e per niente paludata. Non stupisce che Berlusconi, salvo i penosi dissapori degli ultimi annidi Mike, lo avesse a modello per una comunicazione televisiva moderna, popolare ma non priva di un certo contegno.
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