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Amadeus, lo sfogo di Aragozzini: "Perché per me non esiste"

Alessandra Menzani
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Ottantasei anni, lucidissimo, acuto. Adriano Aragozzini è stato uno degli uomini più potenti dello spettacolo italiano. Sicuramente dal 1989 al 1993 lo è stato: erano gli anni in cui era il patron assoluto del Festival di Sanremo. Giornalista, impresario di spettacolo (il primo cliente è stato Gino Paoli), produttore, opinionista televisivo, ancora oggi è manager. Lo rincorriamo in giorni intensi per lui: sta organizzando non un concerto ma il matrimonio in grande stile della figlia: «Guardi, mi arrivano 500 persone, non ho la testa, mi richiami dopo le nozze». Così facciamo.

Come sta?
«Piuttosto bene. È stato straordinario: il matrimonio l’ha celebrato Piero Chiambretti, tra il comico e il commovente. Dal luogo delle nozze sivedeva tutta Roma. La metà erano americani. Mia figlia si è laureata a Miami e si è sposata con un milanese».

Quanti figli ha?
«Ne ho tre. Adriano Jr, 28. Gioia 27, Gigliola 21».

Quante mogli ha avuto?
«Tre. Da due ho divorziato. La mia seconda moglie invece è morta a 35 anni di tumore. Ho perso una figlia nata dal primo matrimonio: aveva solo 23 anni».

Adesso è sposato?
«Sono felicemente single».

Segue le vicende tv?
«Nessuno come me segue le vicende tv. Seguo tutto di tutti».

Lavora ancora?
«Sì, non come prima. Prima facevo promozione degli artisti in tutto il mondo, un giorno ero in Argentina, uno in Messico, l’altro a Melbourne. Oggi si fa tutto col cellulare. Sono manager di un tenore meraviglioso che voglio lanciare, Giuseppe Gambi».

Lo piazzerà a Sanremo?
«Ci provo. L’arrivo di Carlo Conti il prossimo anno aSanremo èun fatto positivo per la musica italiana. Ha stile, classe, categoria. Può fare benissimo e mi dà fiducia. Perché il signor Amadeus, tanto celebrato per questo “miracolo d’ascolti”, ha americanizzato il Festival. Se va a vedere gli ascolti della Rai, nel mio Sanremo del 1989 non c’è stata una serata che Amadeus abbia battuto, ma nessuno lo ha scritto. Ha sicuramente riportato i giovani al Festival, cosa giusta. Ha scelto il meglio che c’è sui social, ma la musica italiana non è quella e non era rappresentata».

E cos’era?
«Quella degli ultimi Festival è musica americana copiata. Il problema è che gli autori italiani e quelli americani hanno Dna differenti. Amadeus come artista non lo discuto, ma come uomo è inesistente».

Addirittura. E che le ha fatto?
«Ho dei messaggi sul telefono che conservo. Riguardano i giorni in cui l’ho cercato per proporre il mio artista, ma Amadeus ha scartato due brani. Uno scritto dal grande Maurizio Fabrizio, l’altro addirittura da un premio Oscar per la musica Luis Bacalov. Lui ha voluto scartare Adriano Aragozzini, non le canzoni».

Perché Amadeus avrebbe dovuto scartare deliberatamente Aragozzini?
«Non so. Magari non ha capito le canzoni, che sono tipiche della melodia italiana».

Ma cosa le ha scritto Amadeus di così grave?
«Non lo dico perché non fa onore a lui nè a me, ma sono tutti memorizzati. Sono un documento che voglio tenere con me e che tirerei fuori semmai rispondesse dopo aver letto l’intervista».

Oggi in tv dominano soprattutto i sessantenni. Vede qualche giovane di talento alla conduzione televisiva?
«Non ce ne sono. Alessandro Cattelan? Per carità. Stefano De Martino? Non mi sembra una star. Uno come Pippo Baudo nasce ogni cento anni, un nuovo Baudo non c’è. Mi piace Marco Liorni ma è sempre della generazione di Conti, eccetera. Guardi, se ci sono giovani bravi, io non ne conosco».

Pensa che con l’addio di Amadeus e di altri big, la Rai si sia impoverita?
«No. Il gioco dei pacchi, suvvia, lo sanno fare tutti.La Rai sta facendo la politica di non spendere i soldi di un tempo, cosa che invece si possono permettere i colossi come Warner Discovery».

Ai suoi tempi c’erano tanti soldi, vero?
«Guardi, i Festival di oggi sono più cari di quelli di un tempo».

Ma come? Una volta c’erano Madonna, i Take That...
«Mica li pagava la Rai. Venivano in promozione. Nel 1990 piazzai Ray Charles in concorso con Toto Cutugno, che arrivò secondo. Il costo dell’artista era di cento milioni di vecchie lire, ma erano soldi che pagava la casa discografica Emi. Ero amico del direttore generale Rai ma mi facevano nero lo stesso: controllavano costo per costo, l’amministrazione era meticolosa e precisa».

Si vuole togliere qualche sassolino?
«Meglio di no. Posso dire che oggi non si riesce a parlare con nessuno. Lavorano sempre gli stessi e quelle quattro o cinque società di produzione. Un mio amico autore ha presentato un’idea di programma fantastico. Non è stato ascoltato».

La politica si intromette nelle faccende Rai? Che esperienza ha avuto?
«La politica si è sempre sentita. Agnes mi diceva: io devo fare la lottizzazione, fa parte delle regole del gioco, ma non la faccio fare ai partiti, sono io che scelgo. Oggi la politica raccomanda le persone».

Quando era all’apice le facevano pressioni?
«Quando mi piaceva qualcuno che mi spingevano, lo prendevo, se non mi piaceva, no. Litigai con Agnes, l’allora Dg, perché non presi iNomadi a Sanremo. Erano passati dal Partito Socialista alla corrente di De Mita».

Ha lavorato e fatto da manager ai più grandi, da Patty Pravo a Gino Paoli, poi Modugno, Tina Turner...Chi faceva più capricci?
«Beh, Patty Pravo. Una cara amica, levoglio molto bene. Prima del successo e del primo contratto, la aspettavo in Venezuela dove doveva venire per un concerto. Attendo all’aeroporto: niente. Non era partita. La chiamo. Mi risponde una sua amica maga che mi dice: Nicoletta non è partita perché gli astri erano contro. Poi negli anni abbiamo lavorato benissimo insieme, sette anni in totale, abbiamo girato il mondo, l’ho portata anche in Australia».

Gino Paoli, di cui divenne il primo impresario, le presentò Lucio Dalla. Ma lei lo snobbò.
«Nella vita ho fatto due errori, chiamiamoli figuracce. Uno è questo. Gino Paoli, che mi aveva anche presentato Tenco, di cui fui il primo manager, un giorno mi disse: “Vieni alla Rca, ti presento un artista numero 1 in Italia, vedrai”. Andai. Ci siamo seduti al bar della Tiburtina. Arriva un signore basso, con il basco, vestito malissimo, con l’accento bolognese, aveva la mano sudata. Io all’epoca facevo il giornalista alla Rizzoli. Un giorno mi chiama Gino sempre per Dalla: “Ma io non posso occuparmi di Dalla, non ho tempo”, tagliai corto. Tergiversai. E la cosa tramontò. Bene: Dalla ebbe successo dieci anni dopo: feci una figuraccia, ma non grave».

La seconda?
«Più grave».

La dica.
«Ero con Patty Pravo. Mi voleva presentare un amico. Era Renato Zero, che mi riempì di complimenti, mi definiva il miglior impresario sulla piazza. Fissiamo un appuntamento nei giorni successivi, in ufficio. Successe che, il giorno prima dell’incontro, mi arrivò in ufficio il divano nuovo verde scuro a cui tenevo molto. Entra Renato Zero e si siede sul divano piantandoci su gli stivali. Si siede sulla spalliera e appoggia i piedi. “Mi vuoi?”, chiese. “Non ho tempo”, dissi. E se ne andò triste. Dopo poco vendette con il primo album un milione e mezzo di copie. Accidenti. Anni dopo Zero disse che Mia Martini fece Sanremo per merito suo. Invece Almeno tu nell’universo, brano eccezionale, lo presi trattando sempre con la Fonit Cetra. Ci fu una diatriba tra noi, per me morta e sepolta».

Ha più amici o nemici?
«Nemici non ne ho. Zero non è un nemico, ma è una persona che non vuole avere rapporti con me. Pazienza».

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