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Umberto Brindani: "Io, romanziere nella Milano segreta dei suicidi imperfetti"

Simona Bertuzzi
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«Il protagonista è un pistarolo, come si chiamavano i giornalisti di una volta».

Provo a indovinare direttore. Tipo scomodo, anticonformista, alla ricerca ossessiva della verità.
«Esattamente. Anche fuori dalle dinamiche del lavoro attuali, con poca dimestichezza con il mondo dei social e non al servizio delle procure o di qualche potente di turno».

Un po’ come lei, intuisco.
«C’è molto di me nel protagonista ma mi ha ispirato un collega bravissimo purtroppo scomparso, Giangavino Sulas».

Cronista sopraffino... non se ne trovano molti.
«Chi lavora nei giornali e nei siti di informazione è legato all’immediatezza della notizia, all’ufficialità che viene dall’autorità inquirente, dalle procure, ed è spesso sufficiente a imbastire un buon pezzo. Il cronista vecchio stampo cerca una via diversa. Si fa domande, coltiva dubbi, non si fida delle apparenze. Nei settimanali funziona ancora così. A poco a poco compaiono i famosi atti dell’inchiesta, verbali o interrogatori, che sono a disposizione delle parti e anche delle difese. Il giornalista vero indaga. Giangavino non si fermava mai alla prima versione, faceva parte di quella minoranza silenziosa che conduce una sorta di indagine parallela e arriva a scoperchiare il vaso di Pandora».

Nel momento in cui scrivo l’intervista non so ancora come finirà Suicidio Imperfetto (Armando Curcio Editore), primo romanzo del direttore di Gente e firma del giornalismo italiano Umberto Brindani che tratteggia con destrezza e suspense uno sconvolgente affresco di nera scandagliando passioni, tipi umani, esistenze. Il protagonista Pierfrancesco Balzani è il giornalista pistarolo. La vittima è Lorena, la figlia dell’editore, giovane avvenente, esageratamente sexy, uno stage inconsistente in redazione e poi un giorno viene scovata appesa con un cavo elettrico a un solido tassello piantato nel muro di casa sua. Impiccata! O forse no. Piove milanesità da tutte le parti. I luoghi sono quelli iconici di chi vive sotto la Madonnina, specie la notte, l’eterno Bar Basso che è un po’ un rito e un’iniziazione, cominci dal Negroni e finisci puntualmente con uno Sbagliato, il bar Madama che si chiamava così perché lì vicino c’era il commissariato di polizia e gli spifferi di indagini scrupolose condotte nel buco nero dell’umanità, poi il Lorenteggio dei palazzoni grigi e delle palestre poco raccomandabili, la fregola con salsiccia del mitico Charleston, a un passo dall’apple store. E al centro, imprescindibile, il palazzo di Giustizia, «enorme parallelepipedo marmoreo piantato nel cuore della città come un’astronave aliena» con quella scalinata infinita che è già un’espiazione di colpa. “Suicidio imperfetto” è il primo lavoro letterario di un giornalista che ha attraversato 40 annidi informazione dirigendo e facendo crescere i più grandi settimanali italiani, Gente, Chi, Oggi, Tv Sorrisi e Canzoni prima ancora co-direttore di Panorama con le grandi inchieste sulla Somalia che scossero il mondo dell’informazione e l’opinione pubblica. E si porta appresso la consapevolezza di un mestiere che si è accomodato nella comfort zone dei social dopo una gloriosa stagione di passione cieca e ricerca ossessiva della verità. Gnomo è il direttore incapace e vigliacchetto. L’Ispettore con la I maiuscola è il giornalista sopravvissuto alle giravolte della vita, vive ai margini della redazione ma è chiaramente l’unico che può indagare sulla morte di una giovane ricca e sregolata. La Natali è la pm avvenente in tailleur grigio che non scende a compromessi, neppure quelli di una certa parte inquirente. Poi sfilano le comparse del grande intrigo, minuziosamente sviscerate nella loro umanità e verità: il Vergottini con la mania delle biro sulla scrivania. Il Ghigo ossessionato dalla via alternativa di scenografo. La collega che era centralinista e poi è stata promossa a correttrice di bozze e, chissà come, è divenuta praticante.

Non mi dica che li ha inventati.
«Figure totalmente inventate. Che racchiudono il meglio e il peggio della nostra professione. Avendo frequentato per 40 anni il mondo dei giornali ho potuto ambientare bene le parti che si svolgono in redazione. In fondo è capitato a tutti di lavorare con un capo incapace...».

Perché suicidio imperfetto?
«Ho preso ispirazione da questa tendenza di certi inquirenti a risolvere casi di cronaca complessi con la teoria del suicidio. Si è ammazzato!, fascicolo chiuso. Un suicidio non si nega a nessuno. Pensi solo agli ultimi casi di cronaca: Angelo Onorato, morto nel suo suv verde con una fascetta legata al collo. O la povera collega Patrizia Nettis, trovata senza vita nella sua abitazione di Fasano e la madre che chiede ancora verità».

Lei è nato a Busseto. Ma si direbbe più un lombardo eccellente.
«Vivo a Milano da 40 anni e mi considero milanese anche se non ho mai parlato dialetto. Nel libro tornano i luoghi che conosco e ho frequentato. Il palazzo di giustizia, appunto, la villa dell’editore a due passi dall’ospedale di don Verzè, il bar Matricola...».

E poi City life con le sue torri, il dritto, il curvo e lo storto, che incombono su di lei, cito testuale, “come minareti laici in uno scenario di fantascienza o forse da occidente opulento”.
«Esattamente ma poi salgo sulla moto e torno nella mia cara periferia».

Milano la ama?
«Io amo Milano tutte le volte che mi capita di andare a Roma e avendo la moglie romana capita spesso. Il mantra adesso è “Milano insicura”. In realtà questa città ha i problemi di tutte le grandi metropoli occidentali, scippatori, malviventi e criminalità di strada. Tra l’altro dal punto di vista architettonico è una città unica nel suo genere».

Quando diventò direttore la prima volta ci fu chi disse “è un peccato per i lettori, perché scrive da dio”. Non è un caso dunque che sia arrivato il romanzo.
«Se c’è una cosa che credo di saper fare bene è scrivere in maniera accattivante. È vero che facendo il direttore si scrive meno ma le occasioni per farlo non mancano e da 20 anni vergo l’editoriale».

Un romanzo però è altra cosa.
«Scrivere una storia inventata con agganci con la realtà consente di essere dentro la narrazione e viverla con pienezza. Ti identifichi con il personaggio, pensi a come potrebbe reagire in certe situazioni. Anche il linguaggio offre possibilità che sono precluse nel nostro mestiere. Non mi sognerei mai di usare espressioni volgari come quelle che ho usato nel libro per rappresentare la realtà di certe situazioni: il mondo delle escort, il lato oscuro della protagonista con le foto di nudo esibite, gli uomini lascivi e senza scrupoli».

Ma adesso tanti termini sono sdoganati.
«Il giornale ha un suo pubblico che è una comunità. Penso che un giornalista debba essere rispettoso dei lettori che non gradiscono parolacce o espressioni violente».

Il giornalismo è cambiato?
«Il mondo è totalmente cambiato e cambiata è l’informazione. I giovani non leggono niente tantomeno qualcosa di stampato su carta. Il pubblico dei settimanali invece è un pubblico adulto maturo, qualche giovane c’è, ma il nostro core business sono i 40-50enni a salire. Io faccio lo sforzo di mettermi nella testa di chi decide di andare in edicola per comprarci facendo fatica anche a trovare un’edicola».

Qual è il segreto di un buon settimanale?
«Si diceva una volta che il settimanale era un grande supermercato. Tu nel settimanale e nel new magazine devi avere tutto: dalla politica alla cronaca, dagli spettacoli al gossip. Una parte importante è la cronaca nera, lo sviluppo dei delitti, i famosi cold case. Anche voi quotidiani state esplorando questa strada».

E cosa tira di più in copertina?
«Io metterei tutte le settimane Kate Middleton, adesso poi che vive questo dramma della malattia ha un appeal incredibile».

I reali piacciono sempre.
«I reali inglesi suscitano ancora un interesse pazzesco. La Windsor mania italiana è quasi paragonabile a quella del Regno Unito».

Lei ha seguito grandi scoop giornalistici come lo scandalo dei militari italiani in Somalia.
«Lo gestii da vicedirettore di Panorama, il direttore era Giuliano Ferrara. Lui non amava gli scoop preferiva il dibattito intellettuale. Poi nel 97 incappammo in questa fotografia di un ragazzo somalo nudo e sdraiato per terra al quale alcuni soldati italiani avevano legato mani e genitali con gli elettrodi. Gliela feci vedere e Giuliano non poté sottrarsi, coprimmo l’inchiesta, spuntò altro materiale».

Quando decise di fare il giornalista?
«Frequentavo l’università di filosofia a Bologna e mi misi in testa di fare il cronista. Andai alla Gazzetta di Parma e il direttore Baldassarre Molossi mi disse “scrivi un articolo e poi decido”. Era uscito un libro di Giorgio Bocca, in quei giorni, cercai il numero di telefono sull’elenco telefonico e lo intervistai. Fu il mio esordio».

Fu anche il primo a raccontare della Lega...
«Ero a Panorama dall’87 e mi affidarono la gestione di questo strano animale che cresceva. Avevo rapporti con Bossi e Maroni. Mi ricordo che Maroni quando diventò ministro disse “aprirò tutti gli armadi e troverò la verità su Ustica”. Feci la prima sera con lui da ministro degli Interni... Bossi invece lo intervistai nella sua casa di Gemonio. Aveva un fiuto politico incredibile, non era un uomo colto ma capiva come sarebbe andata a finire».

A proposito di finale...
«Non le anticipo il finale del libro, ma è chiaro che non è finita qui...».

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