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Liguria, la serie tv tira tra yacht e fiches: alla faccia del diritto e dell'economia reale

Gianluigi Paragone
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Il copione è noto: ogni giorno sulle scrivanie che contano arriveranno frammenti di inchiesta e così l’indagine che vede coinvolti il governatore della Liguria Giovanni Toti, gli Spinelli e altri soggetti diventano i personaggi di una trama simile alle serie televisive. Non è un caso che gli elementi narrativi su cui insistono i resoconti riguardino gli incontri sullo yacht, i soggiorni a Montecarlo, ora i numeri gonfiati del Covid e domani vedremo cos’altro. Tutto molto pop, peccato che qui siamo dentro un livello dove si ha il potere di incidere persino sulla libertà delle persone e sulla vita di una giunta. Nulla di nuovo, verrebbe da dire.

Ai tempi di Tangentopoli la sfida era “biblica” tra i personaggi che da decenni battevano la scena politica nella parte dei cattivi (salvo poi riabilitarli: «Ce ne fossero di Craxi e Andreotti») e il fronte dei buoni composto da magistrati i cui nomi diventano una specie di Avengers. Oggi invece si passa dalla serie “Liguria” alla serie “Vannacci” facendo tappa sulle serie “Fedez”, “Putin” e “Gaza”. La serie “Europa” non tira granché.

TUTTO È INTRATTENIMENTO
In questa serializzazione tutto diventa senza peso e senza forma autentici, tutto è intrattenimento: l’importante è parlarne tanto per parlarne. Così, nel vortice delle chiacchiere, si toccano distorsioni e corto circuiti: non si vuole che il privato finanzi la politica ma nemmeno che il finanziamento sia pubblico; «le opere pubbliche sono un magna magna» ma «in Italia vincono i no e non si fanno i lavori»; «i politici sono tutti uguali» ma «non è che i magistrati siano meglio». E avanti così in questo bar che non abbassa mai la saracinesca e ha sempre qualcosa da offrire agli avventori.

Qual è la puntata più vista? Quella che parlava degli incontri sullo yacht e le notti a Montecarlo. Chissà cosa direbbe il pubblico se sapesse di come se la spassano quando i potenti della finanza si incontrano a Davos o in quei summit riservati, per esempio. C’è voluto il crollo del ponte Morandi per toccare una delle famiglie più potenti d’Italia, grandi investitori pubblicitari, sempre per esempio.

 

TOGHE FUORI CONTROLLO
Si punta sulla serialità di indiscrezioni che facciano presa per arrivare a una sentenza popolare che non ha bisogno della liturgia processuale. Fanno sorridere le dichiarazioni della magistratura che si sente sotto attacco perché minacciata dalle riforme: anche stavolta i processi sono finiti fuori dai bordi e queste cose non accadono mai per caso. Che senso ha essere garantisti quando la grammatica del diritto è saltata?

La politica costa ma non si può dire. Le opere pubbliche passano per definizione da soldi pubblici da “mettere a terra” e in questa dinamica c’è sempre stato un pesce più grosso di altri, il quale gioca la sua partita puntando anche sulle relazioni. Se - per esempio - avessero messo un microfono addosso al «grande italiano» Enrico Mattei cosa sarebbe successo?

Basta leggere qualche libro per avere la risposta. Nessuno vuole giustificare nessuno ma, dopo una lunga sequela di inchieste nate in modo e finite in un altro, sarebbe il caso di domandarsi non solo come siamo finiti a che il Diritto preveda di dover dimostrare la propria innocenza, ma anche quale sarà il prossimo passo.

COME SIAMO ARRIVATI QUI?
E ancora. Come siamo finiti a far coincidere la gestione dei soldi pubblici con l’ombra del reato, con la tentazione? E come siamo finiti alla regola per cui il politico si deve dimettere subito prima che si accerti una responsabilità giudiziaria (accertare le responsabilità politiche sta dentro le regole delle democrazia, della quale uno dei passaggi è l’appuntamento elettorale), mentre se un giudice sbaglia non paga mai? Si distrugge tutto, si riparte da zero, a prescindere dall’accertamento dei fatti come reati. Sotto le macerie ci finisce quel po’ di economia reale che ancora garantisce l’occupazione.

 

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