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Portate rispetto al sugo, simbolo del Paese reale

Giordano Teodoldi
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Certo per un italiano prendersela perché qualcuno gli dice che sa di sugo, è come per un americano impermalirsi se qualcuno lo chiama cowboy. Del resto la baruffetta tra Antonella Clerici (che avrebbe “saputo di sugo”) e Ligabue (che per tale sapore avrebbe rifiutato di partecipare a un Sanremo da lei condotto) è rientrata con la smentita del cantante e un invito conviviale (lei, astuta: «Porta il lambrusco, che io metto il sugo»).

 


Ma il sugo è tanto offensivo? «Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia» scrive Alessandro Manzoni nella penultima proposizione de “I promessi sposi”. E dunque, alla fine di tutta l’immane vicenda, tra pesti, Innominati, eroismi e viltà, le gride e l’assalto ai forni, e senza dimenticare la monaca di Monza, l’unico romanziere di razza della nostra letteratura, invece di chiudere con una trionfale fanfara o un’apoteosi, si congeda dai lettori evocando il sugo. Roba da far storcere il nasino a legioni di scrittori contemporanei (italiani e non solo) ansiosi di chiudere le loro fatiche con uno di quei boati che si sentono continuamente nei ridicolissimi trailer cinematografici, e non certo col sobbollire del sugo.

 


E se dalla letteratura passiamo all’economia, c’è ancor meno da fare gli schifiltosi. Nell’ultimo mezzo secolo il nostro Paese ha perso tutte le posizioni che aveva sorprendentemente conquistato nei campi della ricerca, dell’industria, della tecnica, sicché la principale ragione per la quale, nel mondo, l’Italia è qualcosa di più di un’espressione geografica, sta nell’arte e nei sughi. Non produciamo più nulla se non carbonara, amatriciana, pomodoro e basilico, cacio e pepe eccetera, insomma sughi o condimenti. L’unica cosa che gli stranieri ci invidiano. L’unica nella quale, francamente, non temiamo confronti e nessuno riuscirà a superarci. In tarda età, chiesero a Dino Risi, un uomo che la vita se l’era goduta, quale fosse il suo ideale di felicità. Rispose: «Spaghetti pomodoro e basilico e un bicchiere di vino bianco ghiacciato». Risi sicuramente non se la sarebbe presa se qualcuno gli avesse detto che lui, o il suo cinema, sapeva di sugo. Come non se la prendeva quel mitico personaggio della prima fase della Seconda Repubblica, Giuseppe Tatarella detto Pinuccio, il “ministro dell’armonia”, un uomo amabile e dolce (almeno per quello che possiamo giudicare senza averlo conosciuto personalmente) che, scusate il termine, se ne fotteva altamente quando si alludeva alle sue cravatte o camicie o giacche non esattamente immuni da macchie di origine alimentare. Al contrario, portava la sua trasandatezza con grande signorilità.

 


Ma perfino il vocabolario ci viene in soccorso, nel nostro elogio del sugo: c’è una curiosa parola, non frequentissima ma non rara anche nel linguaggio giornalistico: malmostoso. Vuol dire scontroso, intrattabile, scorbutico. Ha origini dialettali lombarde, e non è altro che l’univerbazione di “male mostoso”, cioè che fa o dà poco mosto, nel senso di sugo. Se chi dà poco sugo è malmostoso e dunque vagamente insopportabile, chi “sa di sugo” sarà quantomeno simpatico, come dimostra l’ineguagliabile tono cordiale, caldo, umano dell’anonimo secentesco che narra “I promessi sposi”, e anche, perché no, il compianto Pinuccio Tatarella. Del resto è un’esperienza che possiamo fare anche noi tutti i giorni: basta mettere a confronto, tra le nostre conoscenze, i figurini, gli azzimati, i “leccatini” e i finti sciatti con chi, senza poterci fare assolutamente nulla, non manca di macchiarsi di sugo il colletto della camicia, o la maglietta bianca fresca di lavatrice. I primi incutono, se va bene, rispetto; i secondi, simpatia. E invece, a quanto pare, si preferisce risultare malmostosi, secchi, algidi, seriosi. Come le famose cene dall’Avvocato raccontate da Alberto Sordi, in cui alla fine gli ospiti, trattati a verdurine, si avventavano sugli spaghetti aglio e olio richiesti dall’attore.

 

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