David di Donatello, dalla Cortellesi a Nanni Moretti: i premi sinistri
È vero, succede ogni volta. Il gioco delle recriminazioni è tipico del momento successivo all’uscita delle candidature. Però mai come quest’anno i film che hanno ottenuto il maggior numero di nomination ai David di Donatello sembrano annunciati da mesi. E anche chi non segue troppo il mondo del cinema, chi va in sala una volta ogni tanto, avrebbe potuto azzeccarli: anzi, forse li avrebbe indovinati con più facilità rispetto a chi va spesso e avrebbe creduto (sperato?) che venisse dato il giusto riconoscimento a titoli più meritevoli e meno prevedibili.
Dopotutto, vuoi che il decantato manifesto del neofemminismo di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, vero e proprio fenomeno commerciale al box office, dall’alto dell’incasso dei suoi 37 milioni di euro, non prenda almeno diciannove candidature, ottenendo il record di ogni tempo per un film d’esordio? E che cosa importa se da un punto di vista tecnico e realizzativo sia imperfetto, lacunoso, dall’approccio dichiaratamente naïf, con una messinscena tra la soap opera e lo sketch comico. E vuoi che la fantasiosa favoletta sui migranti di Io capitano di Matteo Garrone non lo segua a ruota, rientrando in ben quindici categorie? D’altronde, si tratta di una pellicola pensata per cercare di piacere a tutti, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, che rassicura e non mette in crisi le “sinistre” certezze di chi è convinto che il tema dell’accoglienza non vada oltre la complessità di un esotico adattamento subsahariano di Pinocchio.
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E poi ci sono loro, i solitissimi noti: guai a non candidarli. A cominciare dall’ottantaquattrenne Marco Bellocchio, alle prese con Rapito, uno dei film meno ispirati e originali della sua carriera, ennesimo atto d’accusa al fondamentalismo della Chiesa cattolica, che per continuare a bersagliare il suo obiettivo preferito rispolvera addirittura il caso del piccolo Edgardo Mortara, incentrato sulle autorità dell’inquisizione di metà Ottocento. A dir poco anacronistico: persino Papa Francesco guarda e sorride. Risultato? Undici candidature.
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E allora diciamolo pure: meno male che Nanni Moretti c’è. Perché almeno nel suo Il sol dell’avvenire (sette nomination) racconta sé stesso con malinconia e un po’ di autoironia, riflettendo su delusioni professionali e fallimenti personali, sull’amore per le piccole cose della vita, avvicinandosi pacificamente alla resa dei conti. Forse addirittura l’odiato Silvio lo avrebbe apprezzato, sorridendo.
Tutto l’opposto della quinta pellicola selezionata per miglior film, La chimera di Alice Rohrwacher, capace di accaparrarsi ben tredici candidature: storia di un inglese nullafacente alla ricerca di reliquie etrusche e di un ponte verso l’aldilà che potrebbe ricongiungerlo al suo amore perduto. Qui il colpo di sonno è garantito. A ogni modo, rimane fuori dalla cinquina il pericolosissimo Comandante di Edoardo De Angelis, beffato nonostante le dieci nomination, accusato da una parte della sinistra di essere sovranista e patriottico. Per alcuni, “meloniano”. E invece, è un omaggio all’atto eroico di Salvatore Todaro, avvenuto durante la Seconda guerra mondiale, che salvò dal mare ventisei naufraghi belgi: perché essere italiani deve rimanere sempre un motivo d’orgoglio, al di fuori di ogni strumentalizzazione nazionalista.
Piuttosto ignorato anche il bellissimo noir L’ultima notte di Amore (solo 4 candidature), interpretato da un ottimo Pierfrancesco Favino: i polizieschi, le storie di sangue e di criminalità, il cinema di genere continuano a rappresentare un tabù. Infine, la riflessione più amara, quella sulla cinquina per il miglior regista esordiente: il più giovane di loro, Giacomo Abbruzzese, autore di Disco Boy, ha quarant’anni. E quattro su cinque sono film di attori e attrici, ampiamente noti nell’ambiente, che si sono reinventati registi. Esclusi tanti giovani e promettenti autori (da Simone Bozzelli a Tommaso Santambrogio) che, pur non avendo ancora il “nome”, avrebbero senz’altro meritato almeno la candidatura.