Paolo Villaggio, l'impensabile rivelazione della figlia: "Voleva essere bollito"
È stato un padre geniale, complicato e divertente. Ma anche un padre che la felicità l’ha sempre inseguita e quando se ne è andato, lo ha fatto tra gli applausi. Tra 92 minuti minuti di applausi, s’intende. Elisabetta Villaggio fotografa così, papà Paolo, nel memoir privato Fantozzi dietro le quinte (Baldini+Castoldi). Ritratto intimo di un artista che ha creato una delle maschere più indispensabili della nostra esistenza. Quella del ragionier Ugo Fantozzi.
Elisabetta, perché questo libro a cinque anni dalla scomparsa di papà?
«L’idea era quella di svelare chi ci fosse veramente dietro la maschera Fantozzi, penso di esserci riuscita».
Perché ha definito suo padre complicato?
«Aveva una personalità talmente forte che metteva soggezione. Era ingombrante come lo sono soltanto i geni. Con lui ho avuto scontri notevoli, però ci siamo raddolciti negli ultimi anni. Era unico. E sono fiera di essere stata sua figlia».
Una persona che ha generato la maschera di Fantozzi non poteva essere che un rivoluzionario del ventesimo secolo, vero?
«Nel senso più completo. Fantozzi è un Paperino indistruttibile. Nelle sue avventure c’è sempre una denuncia sociale contro i potenti, i megapresidenti, il consumismo».
Papà ha mai odiato Fantozzi?
«Lo adorava! Aveva tutto: un posto fisso, un’appartamento di proprietà e un’automobile, cose che oggi sarebbero un lusso per metà degli italiani. E poi una moglie brutta ma che lo stimava tantissimo e una figlia, seppur orrenda».
Quando nacque Fantozzi?
«Nell’estate del 1970. Ero una ragazzina e notai papà scriveva le storie di questo buffo personaggio su foglietti sparsi. Fu l’inizio di tutto: vennero i libri, i film e il grande successo».
Il lessico italiano si arricchì di vocaboli fantozziani e i personaggi diventarono stereotipi. Come la signorina Silvani di cui Fantozzi era segretamente innamorata.
«E pensare che Anna Mazzamauro fu provinata per interpretare Pina, poi diventò la Silvani».
Papà soffriva la critica? L’essere dipinto come un comico ne solleticava l’ego?
«In parte. Nel 1992, però, venne premiato al Festival di Venezia con il Leone d’oro alla carriera e questo lo guarì da tutte le angosce che accompagnano i comici».
Papà è nell’empireo della commedia dell’arte come i grandi del cinema mondiale. Quali erano i suoi idoli?
«Stan Laurel e Oliver Hardy. Diceva che erano loro i veri comici: infantili, sbadati e asessuati».
Nella sua vita si è circondato di grandi amici: Gassman, Tognazzi, Volontè, Fellini, De Andrè. Un giorno, intervistandolo, mi disse: tutti morti, sono rimasto solo io. E si commosse.
«Soffrì molto la scomparsa di Fabrizio. Erano quasi fratelli anche se li dividevano 7 anni. Invidiò molto il suo funerale, ne avvertì l’amore della gente. Disse: oggi ho capito chi era Faber».
Si narra di scherzi epocali agli amici...
«Una volta fece perdere a Panatta la finale del torneo di Montecarlo: si presentò la sera prima, insieme a Tognazzi, e lo tennero sveglio sino a notte fonda. Il giorno dopo Adriano non stava in piedi, Vilas lo umiliò in campo».
Paolo e i soldi?
«Ne ha guadagnati a palate e spesi molti».
Il gusto del paradosso non lo ha abbandonato sino alla fine. Anche in casa?
«Un giorno, durante un pranzo domenicale, con un gesto alla Gassman ottenne un silenzio cosmico e disse: non voglio essere cremato, cosa ne dite se mi facessi bollire?».
Nelle ultime interviste tirava sempre fuori la parole morte. Ne era atterrito?
«Non più di tanto. Era ateo e mi diceva: a 80 anni senza sesso, senza amici e senza la mobilità di un tempo, mi godo la tavola fino alla fine».
Il cibo come atto di sfida?
«Soffriva di diabete alimentare, uscendo dal medico si infilava in un negozio di formaggi o di dolci. È morto per quella patologia mai rispettata».
Quando si è accorta che papà stava mollando?
«Giù nel 2014. Venne raggiunto dalla notizia che il suo amatissimo gemello Piero era scomparso. Lì ha cominciato a spegnersi».
Christian De Sica ha detto: Paolo era un genio, intelligentissimo ma un po’ cattivello.
«Papà non era affatto cattivo ma timidissimo e un po’ cinico. Possedeva quel disincanto tipicamente ligure che fa apparire cattivelli».
Il momento più brutto della sua vita?
«Quando venne a sapere che Pierfrancesco, mio fratello, era tossicodipendente. Accettò di andare persino in televisione, da Minoli, a raccontare questo dramma. Lo fece per sensibilizzare le tante vittime della droga pesante».
Quanto le manca Paolo? A noi moltissimo.
«Di più. Mi ha insegnato come essere una persona forte e durante l’ultimo periodo, quello della malattia, mi ha portato ad amarlo senza più rancori. Dopo la sua morte pensai: ora come faccio? Con chi posso scontrarmi?».