Dana Ghia, la ricordate? Il dramma: "Ho perso tutto", com'è costretta a campare
La telefonata arriva in redazione in un pomeriggio di estate. Tutto quello che ho in mano è un numero di cellulare scritto su un foglietto giallo. E un nome, Dana Ghia, che si fa largo tra i ricordi dell’infallibile collega di spettacoli e lo fa saltare sulla sedia. «È stata attrice e cantante, la ricordo nel film con Bud Spencer, Continuavano a chiamarlo Trinità. Bionda, elegante, bellissima».
Pronto Dana Ghia?
«Dio la benedica. Finalmente qualcuno che mi risponde».
È un onore conoscerla.
«Lasci perdere, vivo un inferno».
Scoppia in lacrime, si scusa... e il dolore esce a cascata insieme a una solitudine che scava l’anima e si moltiplica. Ma Dana dove si trova adesso?
«In una casa di riposo in Trentino. Sono invalida e bloccata su una carrozzina con mezzo corpo che non c’è più. Muovo a fatica la parte sinistra. Non ho nessuno al mondo, a parte una sorella a Milano che è in terapia per un tumore. Se solo ci fosse qualcuno ad aiutarmi».
Cosa è accaduto?
«Una roba schifosa, dura dal 2011. Sono venuta qua dopo essere stata massacrata da una serie di operazioni che non dovevano essere fatte».
La mente è lucidissima e affonda nei ricordi citando cliniche, dottori, amministratori di sostegno che si sono susseguiti in un tempo diradato dal male e dall’attesa.
«Scriva ogni cosa, la prego, mi assumo io la responsabilità di tutto, non mi resta più niente. Qui in Trentino non c’è solo la meraviglia che dicono...».
Mi racconti...
«Andai in ospedale in una clinica della provincia di Trento per un molare, ma sbagliarono l’intervento. Quando tornai a casa cominciai a stare male. Nel frattempo mi avevano fatto l’antinfluenzale benché fossi allergica. Il medico di base mi disse di prendere l’antiinfiammatorio. Mi pareva di essere su una barca, faticavo a mettermi dalla posizione supina a quella eretta, la testa girava e diedi la colpa ai denti che avevo fatto togliere. Mi ricoverarono in ospedale a Trento e da lì mi portarono sedata a Verona dove mi fecero firmare per essere operata, dicevano che se non firmavo rischiavo di morire».
E poi che successe?
«Fui ricondotta a Trento e rioperata al nervo cranico vestibolo cocleare da un medico che faceva interventi con una nuova tecnica sperimentale, ma io avevo un trauma facciale, non c’entrava nulla il nervo. Il risultato è che sono invalida su mezzo corpo».
Ottant’anni. Il vuoto attorno. L’unico e amatissimo figlio morto da bambino portandosi via ogni ragione di vivere. Anche un’attrice famosa precipita nel baratro e finisce nel tritacarne dei ricoveri.
«Arco e poi Rovereto, prima una casa di riposo poi un’altra. Infine arrivo qui a Mori in questa residenza per anziani».
Con il tempo che non scorre mai. La porta che si apre solo per far entrare medici e infermieri. Per il pasto delle sei, o il cambio delle lenzuola. E la stanza che diventa un mondo senza cielo fatto di oggetti asettici, medicine, riti quotidiani, piccoli movimenti dal letto alla finestra «ho chiesto di lasciarmi qui anche quando hanno trasferito in questo reparto i malati di Alzheimer, ogni tanto sento qualcuno gridare ma non ci bado più».
Che cos’ha di particolare la stanza?
«Ha una grande finestra che dà sull’abete del giardino. E mi ricorda l’albero davanti al Bryan Hotel di New York dove ho fatto seppellire le ceneri del mio bambino morto a 6 annidi emofilia, non volevo che fossero gettate in mare, lasciare che diventassero terra e poi nuova vita mi sembrava la scelta più giusta».
Ma lei è stata una attrice importante, ha avuto una vita piena...
«Cosa vuole che importi, ho lavorato come tutti. Sono solo una vittima di errori sanitari commessi qui in Trentino, ho tutta la documentazione che lo dimostra. E vorrei ottenere il risarcimento che mi spetta».
Perché è venuta in Trentino. Lei è di Milano.
«Avevo finito di lavorare e volevo ritirarmi in queste montagne bellissime per dipingere. È la mia passione, sa, ho fatto tante mostre».
Mi dica dei film.
«Ne ho fatti tanti, western all’italiana, commedie, persino polizieschi».
Quando iniziò la carriera?
«Vivevo a Roma. Mi appoggiavo a un grande magazzino di tendaggi per avere base vicino al teatro. Mi scoprì il grande Luciano Tajoli e vinsi con lui il mio primo applauso. Cantare mi piaceva molto, facevo in radio il gran galà con Tortora, poi Corrado. Viaggiavo in tutto il mondo... Australia, Canada, America».
Il cinema invece?
«Ho conosciuto e lavorato con tanti artisti e registi. Con Tognazzi feci Il Commissario Pepe di Ettore Scola, poi La moglie del Prete di Dino Risi, c’erano Sofia Loren e Marcello Mastroianni. Ricordo Queimada di Gillo Pontecorvo sugli orrori della guerra e del razzismo, il protagonista era un magnifico Marlon Brando. Parlavo abbastanza bene l’inglese e questo mi avvantaggiava».
Ci dica di Bud Spencer. Lo chiamavano ancora Trinità è stato un film cult per tante generazioni...
«Più che il film ricordo Bud Spencer. Girava col camper e con un cuoco personale. E all’ora della colazione offriva il pranzo a macchinisti e montatori. Un uomo di gran cuore. Mi ricordo qualche scena, ma poche cose, io sul carro dei cavalli... Vede, quando è morto mio figlio è finito tutto. La mia carriera è stata stroncata. Non mi andava più di far niente, vivere, ridere, scherzare».
Dove viveva a Milano?
«In zona San Marco. Mio papà, Stelio Ghia, aveva lo studio al civico uno. Era corridore motociclista, alto, prestante, una bella persona. I personaggi che vedevo erano Luciano Brunori, Giorgio Consolini, lo schermidore Edoardo Mangiarotti. Si trovavano tutti al bar dell’angolo tra via Solferino e via Pontaccio».
Un uomo di personalità suo papà.
«Lo amavo moltissimo. Purtroppo è deceduto nella gara di montagna che si chiamava Primi passi della Lambretta. Su questo scatolino che guidava a tutta velocità volò via in un burrone. Lo trovarono aggrappato alla radice di un albero e lo portarono all’ospedale di Bergamo. Non avevo ancora 18 anni, lo vidi avvolto da un sacco tenuto dalla corda per contenere la spina dorsale e gli dissi papà dai che torni a casa, lui mi guardò e rispose: non mi hai mai mentito amore, e vuoi cominciare a farlo adesso?».
Ora cosa vorrebbe più di tutto?
«Ho solo un sogno: lasciare i soldi che mi spettano di risarcimento ai bimbi malati. Avevo parlato con un’assicurazione. Il danno che avevo subito mi fu quantificato in migliaia di euro. Ma non ho visto nulla. Ho detto al mio amministratore di occuparsene».
Avrà dei risparmi suoi Dana...
«Tutto si è perso nel nulla. Avevo un negozio di biancheria e profumeria, fu un errore aprirlo ma avevo due zii da mantenere, che erano anziani e senza figli. Avevo incaricato un ex carabiniere di badare alle vendite quando non c’ero io per stare più tranquilla ma è andato tutto per aria. Mi sono trovata senza una lira e ho dormito persino per terra».
Come passa le sue giornate adesso?
«Leggo e ascolto la musica, mi è calata la vista dalla parte destra, non posso più dipingere. Mi è rimasto solo un quadro, La donna del sole, che custodisco gelosamente».
Non ha più nessuno accanto?
«Solo un’amica che mi porta il caffè ogni tanto, quando viene è come un raggio di sole».
Silenzio. Lacrime. Poi Dana, 91 anni e una voce tremante che non riesco più a scordare, mi congeda con dolcezza: «Le lascio una carezza, cara, grazie grazie grazie per avermi chiamato».
Si riguardi Dana. Cerchi di mangiare.
«Mangiare? Non mi va nulla e non mi resta nulla. Solo la speranza di aiutare i bimbi. E la facoltà, ancora adesso, di decidere del mio corpo».