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Enrico Vanzina, il ricordo del fratello Carlo: "Mia cognata ha sbagliato"

Daniele Priori
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Enrico e Carlo Vanzina. Figli di Steno, fratelli d’oro del cinema italiano. Testimoni di un’epoca. O forse di più. Di un Paese intero raccontato a 360 gradi. «Quante volte ha sentito dire: è una storia che sembra uscita da un film dei fratelli Vanzina?» ci chiede Enrico, che dei due fratelli era ed è quello che scrive da sceneggiatore, scrittore, giornalista. Carlo, scomparso cinque anni fa, era regista. Aveva ereditato il mestiere del celebre padre. «Da cinque anni la cosa che faccio di più è tentare di alimentare la memoria di mio fratello». Ci dice con orgoglio e commozione Enrico, anche ricordando la maratona di tre giorni partita ieri alle 15 su Cine34, canale tematico di Mediaset sul digitale terrestre, che riproporrà 15 dei loro film cult e, al termine, uno speciale originale inedito dal titolo Il Cinema dei Vanzina-il Cinema di Carlo ed Enrico.

 

 

 

Enrico Vanzina, chi era suo fratello Carlo e come lo descriverebbe in cinque parole?
«Carlo era un innamorato del cinema, un signore. Era umile, quello che conosceva il cinema meglio di tutti, avendo fatto per merito l’aiuto regista di Monicelli a 18 anni. Ha raccontato questo Paese come pochi negli ultimi quarant’anni».

C’era uno stacco tra l’essere fratelli e l’essere colleghi?
«Noi abbiamo lavorato come fossimo la stessa persona. Io ho lavorato anche con tanti altri ma tutti i sessanta film che Carlo ha fatto, li ha realizzati insieme a me. Non abbiamo mai litigato. Non abbiamo mai avuto una visione diversa delle cose. Certe volte non facevo in tempo a dire cosa avevo in mente che lui mi precedeva e viceversa. È stato un rapporto molto raro e complicato da spiegare. Una simbiosi totale».

Qual è stato il momento in cui Carlo e lei avete capito che da vostro padre Steno avevate ereditato anche quello che poi sarebbe diventato il lavoro della vostra vita?
«Personalmente l’ho capito quando ho scritto la sceneggiatura di Febbre da cavallo. Ero giovanissimo. Quando ho scritto il monologo finale di Proietti che in tribunale spiega cos’è un giocatore di cavalli, papà lo lesse e mi disse: tu da grande potrai fare il cinema. Assieme a Carlo, invece, lo capimmo quando andammo a vedere Eccezzziunale veramente. Il proprietario della sala venne a dirci che avevamo battuto tutti i record di presenze di sempre al cinema Adriano. Papà ci guardò, ci abbracciò e ci disse: ora siete condannati a continuare col prossimo film. Non pensiate sia facile. Ma fu l’investitura con la quale ci disse: ce la farete».

Enrico, 5 anni senza Carlo. E un mondo cambiato completamente. Come avrebbe messo in scena suo fratello questa Italia post Covid che lei vede oggi popolata di “nuovi mostri”?
«Col cinema si fanno le cose cinque anni, dieci anni o mezz’ora prima. Quello che è accaduto era tutto prevedibile. Il mondo stava già cambiando. Negli ultimi anni l’influenza dei social e delle piattaforme ha portato un cambiamento epocale. Però penso che chi dovrebbe fare questo film dovrebbe essere un giovane, perché loro sono la parte della società più influenzata dai cambiamenti. In questo momento, però, i giovani non vanno al cinema e non gli interessa più. Abbiamo un vuoto di 10/15 anni. Si nota l’assenza di un cinema giovane che racconti questo Paese. Ed è un problema serio».

 

 

 

Il film più bello e quello meno riuscito?
«Il meno riuscito è Banzai ma lo sapevamo. Con Villaggio avevamo fatto Io no spik inglish ed era stato un grande successo. Ci chiesero di fare un seguito e Villaggio ci disse: voglio andare a Tokyo a mangiare il sushi. Ci andammo, facendo però un film bruttissimo. Che se potessi cancellerei. Il più riuscito non lo so. Il mio preferito è Il cielo in una stanza non così famoso come altri ma quello più preciso sulla nostra idea di cinema».

E quello che avreste voluto fare e non siete riusciti a fare?
«Me lo chiedono spesso ma avendo fatto io 120 film se non l’ho fatto vuol dire che non c’è... L’unico rimpianto, avendo avuto in mano l’ultimo soggetto di Sergio Leone che si chiamava Colt come la pistola, è quello di non aver fatto un western all’italiana con gli attori di oggi».

Con la vedova di suo fratello, Lisa Melidoni, poi ha chiarito la polemica sulla memoria sminuita nata in occasione del David alla vostra carriera e ritirato da lei?

«Mi chiede di commentare qualcosa di incomprensibile. Surreale. Quello che ha detto mi ha provocato un grandissimo dolore. E' talmente evidente che non è come dice lei».

Cosa le manca di più e cosa vorrebbe dire a Carlo cinque anni dopo?

«Che per fortuna il mondo è rimasto ridicolo sennò non si potrebbe più fare il nostro lavoro. E che mi manca la sua signorilità, sostituita dai tanti improvvisati. Io so, attraverso la sua e la mia storia, che per fare questo lavoro bisogna cominciare umilmente dal basso. Ma questo nessuno lo capisce più». 

 

 

 

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