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Enrico Ruggeri, la bordata: "L'unico posto in cui vince la sinistra"

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Daniele Priori
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Enrico Ruggeri segue la coerenza e la realtà. La sua musica tratteggia i contorni dell’anima. Cerca spazi di racconto letterario che in più occasioni, come nell’ultimo splendido singolo Dimentico ha trovato proprio nei meandri delle menti di persone malate di Alzheimer. Origini punk ma un gusto musicale indefinito e, potremmo dire, onnivoro, lo hanno portato a restare sempre sulla cresta dell’onda.

Ruggeri, anzitutto auguri. 66 anni e non sbagliare un colpo in una carriera lunga e di successo. Ci spieghi come fa.
«Andando avanti per la mia strada. L’ho già detto più volte. Da quanto ho iniziato questo mestiere ho capito due cose: che non avrei fatto gli stadi ma anche che non sarei scomparso, cioè sarei durato a lungo. So benissimo che ho un pubblico che mi segue e ama che io sperimenti cose diverse. Con loro ho un bellissimo rapporto e grazie a questo mi sento libero di fare di quello che sento».

Qual è il filo conduttore principale che ancora unisce il Ruggeri ribelle degli esordi punk e il pittore di narrazioni sempre in punta di pensiero che è oggi?
«L’ispirazione e il fatto che non ho un artista di riferimento. Mi piacciono molte cose: dai Clash ad Aznavour a David Bowie. Quando scrivo quindi i miei gusti si sovrappongono. La domanda alla quale non so rispondere è che genere fai. Non so mai bene come rispondere. Perché non so riconoscermi in un genere solo».

Dimentico per esempio, la sua ultima canzone dedicata ai malati di Alzheimer a noi è parsa in una forte coerenza narrativa con Polvere, brano di quasi 40 anni fa. C’è la connessione?
«Ho scritto parecchie canzoni sui disagi che non si vedono. Ce n’è anche un’altra che mi piace molto. Si intitola La preghiera del matto. Tutto quello che riguarda la mente è molto misterioso e al tempo stesso, ahimé o per fortuna, crea letteratura. Con confini molto sottili quanto importanti, perché è diverso essere giù di corda dall’essere malato di depressione o il dimenticarsi le cose in età anziana dall’essere malati di Alzheimer, ovviamente».

Vinse Sanremo la prima volta con quel trio così inedito con Morandi e Tozzi. Secondo lei un’esperienza simile ha avuto eredi o è rimasta un unicum?
«Viviamo in anni nei quali la metà dei pezzi che escono sono collaborazioni. Però credo che di tutte queste il 5% dei trii, dei duetti o featuring come si dice oggi, siano sinceri. L’altro 95% è solo studiato a tavolino dai manager. Nel nostro caso con Morandi e Tozzi giocavamo a pallone insieme. C’era già un bel rapporto. Poi arrivò questa canzone. All’inizio dovevamo fare un pezzo per Natale, non abbiamo fatto in tempo così siamo andati a Sanremo. Vincemmo e mosse anche il mondo commerciale. Pensi che quando uscì Si può dare di più la mia casa discografica era in cassa integrazione. Poi furono costretti a passare ai doppi turni per stampare la canzone. All’inizio però fu davvero tutto molto spontaneo tra di noi. Una canzone che sentivamo ci riguardasse perché tutti e tre giocavamo nella Nazionale Cantanti».

A proposito Sanremo. È un capitolo chiuso o ogni tanto ci fa ancora un pensierino?
«Le tappe fondamentali della mia carriera sono passate da Sanremo. Il primo approccio l’ho avuto con Contessa con i Decibel e poi l’ho rivinto anche da solo con Mistero. Quindi mai dire mai, naturalmente...».

Poi si trovò ad affrontare anche il tema della guerra nei Balcani con Primavera Sarajevo, sempre sul palco dell’Ariston...
«Un altro brano nato grazie alla Nazionale Cantanti. Andammo a Sarajevo con un aereo militare. Una ditta farmaceutica ci aveva dato medicinali da portare e giocammo a pallone per i soldati italiani che erano lì. Un’emozione fortissima che trasformai in una canzone per Sanremo».

Torniamo a parlare di televisione. Davvero rientrerà nella grande partita dei palinsesti Rai? Si sentono molte voci...
«Le sento anche io e mi fa piacere sentirle. Spero non siano solo voci. Purtroppo non so molto di più. È evidente che essendo venuta a mancare quella parte che per anni mi aveva ostracizzato e impedito fisicamente di mettere piede in Rai, può darsi che succeda qualcosa diciamo...».

La Meloni al lavoro. Che ne pensa?
«È bello vedere qualcuno che ce la fa dal basso. Essendo una donna dovrebbe far piacere a tutti. Poi non è così perché ci sono le opposizioni che criticano tutto e ci sta. Però resta che è una donna che ha preso un partito al 2% e lo ha portato ad essere il primo partito d’Italia. Certamente sapendo scegliere le persone vicine a lei e costruendo una bella squadra».

Lei è stato sfavorito dall’etichetta che la vorrebbe un cantante di destra?
«Certo. Non sono uno che ha frequentato i salotti della sinistra. Questo è vero. Però negli anni 80 andavo tranquillamente a suonare ai Festival dell’Unità che aveva una connotazione di massa più che politica. Con tutto il rispetto, le persone di sinistra allora andavano con piacere a cuocere le salsicce gratis per Berlinguer. Quello era il partito della gente. Quello di oggi no. Ci sarà un motivo se a Milano la sinistra vince nella ztl e nei quartieri dimenticati vince la destra...».

A proposito. Sabato l’Inter giocherà la finale di Champions. La guarderà?
«Certamente. A casa con i miei figli. Siamo tutti interisti, come era interista mio padre. È una tradizione di famiglia».

E domenica tornerà in campo con la sua Nazionale cantanti...
«Saremo a Mantova. Un impegno che negli anni ha raccolto oltre 100 milioni di euro. Questa esperienza mi ha tenuto attaccato alla realtà, portandomi a contatto con chi soffre. Se c’è qualcosa di buono in me, in gran parte è grazie a questo».

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