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Susanna Tamaro "cancella" la letteratura italiana? "I ragazzi studino me, non Verga"

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Silvia Stucchi
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La dichiarazione di Susanna Tamaro, che, forse colta alla sprovvista, ha parlato dell’opportunità, nelle scuole, di abbandonare lo studio di Verga in favore di testi del Novecento, fra i quali il suo Va’ dove ti porta il cuore, al di là del polverone sollevato, può offrirci anche una proficua occasione di riflessione, a partire, per esempio, dal limpido comunicato del Consiglio Scientifico della Fondazione Verga di Catania. In esso si ammette che, certo, va dato più spazio, nella prassi dell’insegnamento della letteratura italiana, al Novecento (e perché no? anche ai primi anni Duemila, direi, se il tempo non fosse tiranno, e chi lavora a scuola lo sa bene, soprattutto a maggio); ma è pur vero che, senza una buona conoscenza dei classici della nostra storia letteraria, concentrarsi sul Novecento sarebbe come costruire sulla sabbia, senza le fondamenta. Soprattutto, però, la letteratura, con la sua capacità di astrarre e universalizzare, rappresenta in forma potente anche le brutture degli uomini e l’inferno che hanno dentro: così sottolinea la Fondazione Verga, portando ad esempio le opere di Dante, Shakespeare e, appunto, dell’autore dei Malavoglia.

 

 


Da studentessa non ho potuto non restare folgorata dalle sventure della famiglia Toscano, o di fronte all’ansia di accumulo e riscatto culminata nella morte squallida e solitaria di Don Gesualdo Motta; sono stata stregata da novelle belle e terribili, come Rosso Malpelo, che spiega l’esclusione e il pregiudizio, la solitudine e la ferocia dell’uomo verso l’uomo come centinaia di pagine di sociologia e psicologia; o come la strepitosa Libertà, le cui poche pagine condensano l’incapacità anche solo di capire che cosa significhi essere cittadini e di leggere il mondo («Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti», si ripetono gli abitanti del paesino, con le mani sporche di sangue dell’eccidio). E poi, Verga analizza i mali del suo tempo, che è anche il nostro, in fondo: catanese vissuto a lungo al nord, nelle sue novelle meno note, ma non per questo meno potenti, racconta la solitudine nella grande città industriale (si veda L’ultima giornata, che ricostruisce genialmente le ultime ore di un suicida alla stazione di Sesto); oppure, mette in scena le spietate dinamiche del branco (cfr. Tentazione!, che narra di una aggressione nelle campagne alla periferia est di Milano).

 

 

Sono ardui questi testi? Spesso, sì. E piacciono agli studenti, come piace loro Dante, che semplice non è, come piace il forte sentire di Foscolo, come affascina la combattiva disperazione di Leopardi; come in piena prima ondata di CoVid vedevo dallo schermo occhi attentissimi mentre spiegavo la peste del 1630 in Manzoni. A corollario di questa modesta riflessione, un’aggiunta doverosa, da parte chi, come me, con ragazzi dai quattordici ai vent’anni ci lavora da qualche lustro: forse, visto che viviamo in un tempo in cui (almeno sulla carta) si dà sempre maggior peso alla competenza – nei suoi vari ambiti-, sarebbe il caso di lasciare che le proposte in ordine a ciò che è opportuno o non opportuno fare a scuola venissero da chi a contatto con gli studenti ci lavora, ne conosce avendone direttamente il polso gusti, bisogni, difficoltà, e cerca tutti i giorni di costruire insieme a loro qualcosa di bello e duraturo. 

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