Paolo Rossi asfalta la sinistra: "Ieri sfottevo Berlusconi. Ma oggi..."
Paolo Rossi torna e va all’attacco del politically correct, arma di distrazione di massa, come della cancel culture. Pensa agli americani «che coprono il pisello del David di Michelangelo ma non mi dicono che a Trieste (dove vive ndr) ho visto dalla finestra la portaerei a propulsione nucleare Truman che mi ha fatto diventare obiettivo sensibile di una guerra della quale, per quanto mi informi, continuo a capire poco come si capisce poco di tutte le guerre». Lo show, però, deve andare oltre, più che mai ora. Seguire i tempi, continuando a raccontare il mondo attorno così come è. Senza scaletta. All’impronta. Forte di un mix di tradizioni che pescano dalla stand-up alla commedia dell’arte. «Un genere nuovo o quanto meno originale, necessario a reggere l’urto dei tempi».
Rossi con il suo Scorrettissimo me sarà in scena da mercoledì 5 aprile al Teatro Duse di Bologna. Ci racconti come è nato questo spettacolo.
«È nato durante il lockdown quando abbiamo recitato senza infrangere ma dribblando le regole. Andavamo in scena nei cortili dei condomini o nelle case di ringhiera che sono in fondo dei teatri elisabettiani, mentre portavamo la spesa alle famiglie che non potevano uscire. Siamo stati un genere di conforto nobile e laico, non dei guru politici. Era una necessità del pubblico che mi fa dire che oggi lo spettacolo dal vivo a teatro debba essere prima di tutto un luogo di relazioni sociali. Se ci pensa anche la messa in latino, di cui non capivo niente, ha una struttura drammaturgica precisa. Segno che viviamo da sempre nella società dello spettacolo. Le omelie sono la stand-up, a volte vanno fuori tema. Non è un caso che il Papa abbia consigliato di stringere un po’...».
Rossi, che satira tira in questa Italia del 2023?
«Non è quella del secolo scorso. È mutata, come sta cambiando tutto. Io sono rimasto delle stesse idee, però sono le idee che hanno cambiato di posto. Quindi se devo raccontare una storia, la racconto sul disorientamento, non solo mio ma anche di chi viene vedermi e ascoltarmi. Prima di tutto la satira oggi va intesa partendo dalle origini e dai fondamentali. Deve seguire il tempo che vive. Non ha alternative o altre vie di uscita. È inutile fare l’imitazione di un’imitazione, quando parli di un politico, per dire. Ed è una missione impossibile fare la parodia di una parodia, parafrasando Philip Dick. Devi avere ben presente quello che sta succedendo in questi tempi difficili di trasloco morale e velocità. Altro che i futuristi! Andiamo alla velocità della luce, non più del treno o dell’automobile. L’attore deve tornare ad essere un po’ folle, un po’ fuori dal coro. Cercando di non essere quello che dà la linea o fornisce risposte ma quello che per primo si pone delle domande e le condivide con le stesse domande che probabilmente si pone il pubblico. Ridere è politicamente scorretto e fa bene. La cosa più bella è quando riesco a far ridere uno che non la pensa come me: vuol dire che ho aperto un dialogo, pure se poi ognuno rimane delle proprie idee. Io, in ogni caso, come Cyrano, al fin della contesa, tocco».
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Nella sua battaglia al politically correct e alla cancel culture ha trovato qualche alleato tra artisti e intellettuali?
«Credo di essere fuori dal coro anche rispetto a quelli che sono fuori dal coro. Sono proprio fuori fuori. (Sorride). Non mi pongo il problema perché è ridicolo. Non faccio satira sul politically correct. Io vado avanti raccontando storie in teatro come in qualsiasi altro posto. Si figuri che su dieci richieste che mi arrivano, sei o sette non sono teatri ma luoghi diversi: dall’aula magna di una scuola, a un caffè teatro, da una festa popolare alla villa di un signore benestante pugliese che ha dipinto la sua cantina con botti di vino a mo’ di teatro con 300 posti e tanto di graticcia. Per cui si stava andando verso il futuro ma qui ritorna anche il ‘700, perché Molière e i commedianti dell’arte facevano più o meno questo».
Il cantastorie giudica e si schiera o rimane super partes rispetto al dibattito attuale?
«È difficile rispondere. Non credo che oggi il problema sia fare una scelta tra destra, sinistra e quant’altro . La questione che si pone oggi è da che parte si decide di stare: da quella degli indifferenti, dei mediocri, di quelli che seguono gli algoritmi ministeriali per fare spettacoli o dalla parte di chi vuole solo raccontare storie, libero di dire quello che pensa tranquillamente? Io guardo molto di più la persona che non l’idea in cui questa può credere. D’altra parte l’unico diploma che ho è quello di chimico e quindi mi piace mischiare gli elementi anche più lontani per vedere l’effetto che fa... (ride)».
Elly Schlein leader del Pd, è figlia di una famiglia benestante. Giorgia Meloni, premier di destra, viene dalla borgata. Cosa ha pensato vedendo anche questo ulteriore cambio di paradigma?
«Che ad aver cambiato di posto, oltre alle idee, sono anche le persone (sorride). La risposta non te la do perché si vede nello spettacolo. Non mi interessa fare parodie dei politici che non fanno parte di questo genere nuovo che vado proponendo, ma mi domando: se dovessi andare a cena, senza fare differenze se si tratti di uomini o donne, con chi andrei? Vent’anni fa quando mi chiesero se sarei andato in vacanza con Prodi o con Berlusconi risposi: tremila volte con Berlusconi, anche perché al massimo avrei tirato fuori un altro spettacolo! C’è da dire pure che oggi picchiare sul Pd mi viene facile come mi accadeva nel secolo scorso con Berlusconi».
Lei si è spesso definito anarchico. Un aggettivo tornato ad essere pericoloso, non trova?
«A me fa molto ridere. Quando non capiscono la colpa di chi è, la danno agli anarchici (sorride). Io non reputo gli anarchici quelli che vedo nei Tg ma quelli che ho conosciuto da ragazzo a Ferrara dove frequentavo il bar sport, la parrocchia e un circolo anarchico tenuto da un maestro generosissimo di Carrara che aveva fatto la Guerra di Spagna. Questa persona mi ha insegnato le regole. Per lasciare gli altri liberi, come nell’improvvisazione, ci devono essere delle regole quasi militari per autogestirsi, mantenere equilibrio e dignità».
Siamo nel decennale della scomparsa di Enzo Jannacci con cui partecipò a Sanremo. Ha un ricordo?
«Con Jannacci ho fatto otto anni di tournée, di vita, di spettacoli. Ho avuto la grande fortuna di inanellare il massimo per uno che fa spettacolo: Dario Fo, Giorgio Strehler, Gaber e Jannacci. Quattro monumenti. Mi hanno chiesto un ricordo di Enzo. Io ho risposto che risale a ieri sera, perché tutte le volte che parlo o canto cose che lo riguardano, lui è con me. Io lo sento».
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