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Anna Galiena, la rivelazione piccante: "Chi ho cacciato dal set"

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Daniele Priori
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Da Shakespeare a Anna Galiena. Tutto è possibile a teatro ma anche nella vita vera. Storie di Coppie e doppi «ma le coppie non c’entrano nulla. Ognuno fa coppia con chi vuole e come vuole. In scena porto il maschile e il femminile che c’è in ognuno di noi. Penso che ognuno di noi abbia una parte e l’altra indipendentemente dal ruolo e dal genere. Ci sono uomini perfettamente etero che hanno una parte femminile sviluppata e donne perfettamente etero che hanno, viceversa, una parte maschile più sviluppata. È qualcosa di individuale. Un attore che porta in scena questo testo si misura con quanto c’è in sé di una parte e dell’altra».

Anna Galiena si prepara con piglio deciso al debutto che la vedrà da domani fino al 6 aprile al Teatro Franco Parenti di Milano. In Coppie e doppi l’attrice si fa letteralmente in dieci, tanti sono i personaggi che interpreta, per portare sul palco lo spettacolo che nasce come un omaggio al femminile a Shakespeare con testi tradotti e adattati dalla stessa Galiena, inscenando il dualismo dell’essere umano. Noi che amiamo andare fuori tema, ci siamo curati anche di risolvere un altro doppio legato alla biografia dell’attrice: quello sul reale anno di nascita che fino a oggi persiste. Venendo meno, ahinoi, a ogni regola di bon ton.

 

 

 

Con quale spirito ha messo la propria penna tra gli scritti del genio di Shakespeare?
«Io lo frequento da sempre, da quando ho perfezionato il mio inglese, quindi dai miei vent’anni. È stato il mio compagno di viaggio, il mio breviario. È stato un dramma quando, in un trasloco newyorchese, ho persola mia collezione di lavori shakespeariani, il mio libro feticcio. Poi l’ho ricomprato ma non è la stessa cosa. Ci ho pianto per giorni perché stava sempre con me. Il mio Shakespeare in inglese, oltre ad averlo recitato, appartenendo a una compagnia shakespeariana basata a New York, io lo leggevo e imparavo a memoria. Non mi arrogo nessun diritto, è la mia passione. A un certo punto, io già lavoravo su questo doppio in inglese. Andrée Ruth Shammah mi offrì di farlo al Teatro Parenti in inglese, ma allora non sapevo ancora come affrontare lo spettacolo, mi ci è voluto tempo per maturarlo. Finché, grazie a un’altra produzione che mi ha chiesto di farlo in italiano, ne abbiamo fatto una breve stagione senza la mia regia. Dopo altro tempo, ho rifatto la traduzione ex novo e ho pensato come metterla in scena. Così una coppia di giovani produttori, Raffaele Buranelli e Karin Proia, mi hanno chiesto nell’autunno 2019 se avessi un monologo da fare nel teatro di Patti. Proposi questo spettacolo e ne rimasero entusiasti. Quindi Coppie e doppi è nato a Patti, in Sicilia. Ne ha avuto notizia, tramite un’altra intervista, Andrée Shammah che mi ha invitato a farlo a Milano. Ed eccomi qua».

A proposito di doppi. C’è un giallo, un doppio, anche sul suo anno di nascita: 1949 o 1954? Sa come e perché si è generato?
«Io sono del ‘49. C’è stato un magheggio legittimissimo. Siccome il mio successo è iniziato a 40 anni- che per le donne è un dramma - e gli spettatori mi dicevano che ne dimostrassi dieci di meno, io e i miei pensammo, dichiarandolo, di togliermi cinque anni. L’idea è piaciuta e quell’età è stata, per così dire, adottata. Ora non so come si faccia a correggere la voce su Wikipedia. Penso che dovrei intervenire ma non so come farlo. Quando troverò qualcuno che mi aiuterà, sistemerò anche quello. Fine del giallo».

Guardando il suo percorso artistico il doppio potrebbe essere anche un triplo o un quadruplo: teatro, tanto cinema, le fiction tv e la danza che fu la sua passione da bambina. Quale di questi ambiti sente più come casa sua?
«La danza è finita da un pezzo. Studiavo al Teatro dell’Opera, un allenamento feroce per una bambina, tutti i giorni, domenica inclusa. Mio padre mi fece interrompere in maniera brusca perché aveva capito che poteva diventare una carriera e non voleva. Lui era un grande amante dell’arte, alla quale mi ha iniziata in tutti i campi, ma non voleva che i suoi figli la intraprendessero come lavoro, perché gli artisti, diceva, fanno una pessima vita. Non aveva torto ma comunque... Il mio primo vero amore, quando finalmente uscii di casa e potei esprimermi come volevo, è stato il teatro. Il cinema è venuto. L’ho accolto a braccia aperte perché mi piace molto la macchina da presa. Tutto il resto sono dei derivati. Di fiction ne ho fatte poche e di televisione non ne ho fatta perché non la percepisco come un mezzo per me. In tv ho fatto solo un programma che si chiamava Protagoniste su Skye, quella sì, era veramente Televisione. Nonostante di offerte ne abbia avute, ho sempre rifiutato, preferendo continuare a fare quello per cui mi sento più portata».

 

 

 

Lei ha recitato anche con registi che hanno nell’eros la loro principale cifra espressiva. Da Bigas Luna a Tinto Brass. Il senso del pudore di un attore sul set secondo lei corrisponde o meno a quello della persona che c’è dietro il personaggio che si trova ad interpretare?
«L’attore è una persona. Le persone hanno le loro caratteristiche che non corrispondono ai personaggi che si interpretano. Se uno è attore deve interpretare molte facce, anche quelle che normalmente non gli apparterebbero. Io sono una persona molto timida anche se non sembra, perché poi ho imparato a farmi vedere. Quando faccio personaggi sfrontati devo andare a cercare dentro di me. Ma dentro di noi ci sono delle cose che non sappiamo. L’attore va a frugare dentro di sé e fuori, ovvero nei personaggi che è chiamato a interpretare. L’erotismo è un’altra storia. Se vuole ne parliamo».

Parliamone pure, certo.

«Parlando di erotismo e di set, ogni attore impara a proprie spese. Ho ricordi di un set spagnolo che non era di Bigas Luna, ma era la più grande produzione del 1990, anche se poi non ebbe fortuna. Si chiamava La vedova del capitano Estrada e prevedeva una mia scena erotica col protagonista. Mi accorsi, dalle battutine che si scambiavano, quanto tutti attorno si erano piuttosto eccitati. Così mi incazzai al punto che chiesi a chi dirigeva che sul set rimanesse solo chi realmente occorreva alla scena: quattro persone e basta. Quello che fa innervosire è il voyeurismo. Non servono gli spettatori sul set. Viceversa più si collabora, più diventa facile».

Nel prossimo futuro cosa c’è oltre la rilettura shakespeariana?

«Molto cinema ma io parlo solo delle cose compiute quindi le dico cosa c’è ora: quattro film nei quali recito: La sposa in rosso di Gianni Costantino uscito la scorsa estate al cinema, Improvvisamente Natale di Francesco Patierno con Diego Abatantuono, andato bemissimo su Prime Video, mentre di prossima uscita, credo dopo l’estate, ci sarà il film Felicità di Micaela Ramazzotti e Giorni felici di Simone Pietralia montato proprio in queste settimane». 

 

 

 

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