Edoardo Bennato: "Successo, notti magiche e censura. La mia storia da rinnegato del rock"
Il Gatto e la Volpe alla soglia dei cinquant'anni si sono fatti ancora più furbi e infingardi. «Il nostro Paese resta prigioniero di Collodi, anche se la grande Balena non c'è più». Edoardo Bennato è tornato sul palco e gira l'Italia dopo il Covid. Tre ore di concerto a 76 anni, quasi come Mick Jagger, che ne ha tre di più. «Sono andato a vederlo a San Siro tre settimane fa; anch' io feci 80mila persone paganti sul pratone, era il 19 luglio 1980. Avevamo lo stesso manager ai tempi, Friz Rau, anche se in realtà è Mick l'implacabile manager di se stesso. Me lo ritrovai in camerino a Colonia, con tutti i Rolling Stones. Arrivò in tuta, lui fa jogging prima di salire sul palco, suo padre era maestro di atletica. Il suo è tutto marketing, la sua vita dissoluta è una clip, non c'entra niente con la generazione no future, di cui è coetaneo, quella di Sid Vicious, Jim Morrison e Jimi Hendrix secondo i quali esisteva solo il presente, tanto poi si moriva a 27 anni».
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Anche tu sei longevo e in forma...
«Non bevo e non fumo, gioco ancora a calcio, faccio windsurf e sci nautico. Ma non sono longevo, sono tardivo, ho dato il mio primo bacio a 23 anni, ho fatto mia figlia Gaia, la cocca di papà, a 58 e ho avuto la mia prima chitarra a 12 anni. Eravamo tre fratelli maschi, mamma non voleva che perdessimo tempo nelle lunghe vacanze estive, convinta che l'ozio sia il padre dei vizi, e cercò un'insegnate d'inglese».
Non la trovò, si capisce dai tuoi jingle, dove farfgugli un americano inventato...
«A Bagnoli negli anni Cinquanta non era impresa facile e ripiegò sulla musica. Lì però imparammo noi tre in fretta, due anni dopo eravamo già in America a suonare. Ci pagò il viaggio un signore distinto che ci aveva sentito in strada. Disse: "Siete bravi, se sarete promossi vi mando oltre Oceano". La tv venezuelana ci fece un contratto, perché tanti italiani vivevano laggiù. Allora era una nazione prospera e democratica. Il successo però arrivò dopo una gavetta lunga e umiliante».
Ma se hai esordito con la Ricordi...
«Avevo già 28 anni e un ricco curriculum di porte sbattute in faccia. Pensavo di avercela fatta, era il 1973 e riuscii a pubblicare Non farti cadere le braccia, un album praticamente di sole hit, c'erano anche Campi Flegrei, Un giorno credi, Rinnegato...».
E infatti arrivò il successo...
«Invece no. Le radio non passavano i miei pezzi. Sostenevano che avessi una voce sgradevole. Mi chiamò un dirigente della Ricordi dicendo che era meglio chiudere il contratto e che avrei fatto bene a fare l'architetto. Imparai subito che nel nostro mestiere è bello quel che viene enfatizzato dai media; ma per mandare in onda le tue canzoni ed enfatizzarle, qualcuno deve avere un interesse».
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Già nel primo album avevi scritto la tua storia...
«Non mi sono fatto cadere le braccia. Ho messo nel cassetto le canzoni incise, ho preso la chitarra, l'armonica e il tamburello a pedale e mi sono messo davanti alla Rai a cantare quattro nuovi pezzi, versione punk: Arrivano i buoni, Salviamo il salvabile, Bravi ragazzi e Il buono, uno sfottò del presidente della Repubblica del tempo, il mio concittadino Giovanni Leone, allora si poteva picchiare in alto. Arrivarono i giornalisti di Ciao 2001, mi ritrovai a cantare al Festival di Civitanova Marche di fronte a tutta l'intelligentia musical-culturale e qualcuno decise che, meridionale e figlio di un operaio dell'Italsider, io potessi rappresentare il disagio giovanile. D'un tratto divenni intonato e i miei pezzi furono trasmessi in tutta Italia come fossero il Vangelo. Giravo i festival dell'Unità, di Liberazione, di Autonomia Operaia».
Parli così perché sei deluso?
«Non sono deluso, non mi sono mai illuso. Io sono un privilegiato perché, anche se ai tempi supplementari, sono riuscito a fare il mestiere che mi piace. Anche Gaia è una privilegiata, però sono molto preoccupato per il suo futuro, anche se parla inglese e non fa la musicista...».
Edoardo Bennato vorrebbe che per lui parlassero solo le sue canzoni; anzi, «le vibrazioni che la gente sente quando viene ai miei concerti, perché io sono un artista, non un professore o un sociologo, parlo astruso, se uno mi sente, si chiede: ma dove vuole arrivare questo? E poi, come si dice? In certe circostanze c'è sempre qualcuno che ti ricorda che ogni cosa che affermi può ritorcersi contro dite». Cavargli una frase dalla bocca è come estrarre un dente del giudizio. E infatti ogni sillaba è una sentenza. «Che devo dire su chi vuole fermare il concerto dei Maneskin per evitare una nuova ondata di Covid? Loro sono bravissimi, ma potrebbero essere nati in qualsiasi parte del mondo. Sanno le istituzioni se è giusto fermare i concerti, loro rappresentano la comunità; o no? Io e mio fratello, durante il lockdown della primavera 2020 abbiamo fatto una canzone, Non può essere questa la realtà. Però già nel '74 cantavo "c'è il coprifuoco, e pensare che all'inizio sembrava un gioco, fate i bravi ragazzi e vedrete che sistemeremo tutto". Ero stato ottimista però, l'avevo messo all'una di notte».
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Oggi la protesta giovanile la cantano i rapper delle periferie, per lo più immigrati di seconda generazione. Testi molto violenti, quasi inni alla delinquenza. Ti piacciono quelle canzoni?
«Tu hai l'autorevolezza per dire certe cose, io no. Il rap mi piace perché ha in sé un tocco di blues. Ma la musica che ha un costante riferimento all'attualità, quella impegnata è il rock e il punk ne è un'espressione straordinaria per descrivere una società che si autodefinisce sensata invece è schizofrenica. Ecco, questo faccio, evidenzio le schizofrenie umane. E vado ad ascoltare certi colleghi, come i Green Day per ricaricarmi, giù dal palco».
Che pensi dei tuoi colleghi impegnati?
«Cosa intendi per impegno? L'impegno spesso è un camuffamento, come quello del Gatto e la Volpe. Mi sembrano più onesti Orietta Berti e Al Bano, finché la barca va e la felicità in un bicchiere di vino e un panino. Fanno pop, per loro la musica dev' essere solo evasione e te lo dicono diretto in faccia. Meglio loro di chi si dà toni da impegnato ma finisce per essere leggero e sconclusionato».
Hai scritto un brano durissimo contro la sinistra...
«Già... "ma com' è sinistro, ma com' è feroce il tuo sguardo quando parla della pace. Lo faresti a pezzi chi ti contraddice e difendi il gregge, ma sei tu il lupo". Era il 2008 anche se sembra oggi. Come d'altronde Stop America, non esagerare con la severità. Era il 2003, l'album Uomo Occidentale, sono passati vent' anni ma quando canto quei pezzi al concerto, se uno non lo sa, non se ne accorge».
Sei un anti-americano?
«Ma sei matto? Mai. Tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo l'America come riferimento culturale. E tutti noi vediamo che è una bella donna, che abbiamo seguito innamorati ma è invecchiata e si tinge i capelli».
Perché tu no?
«Parli dei capelli? Io però sono un uomo occidentale atipico. Non ho, come lui, "il dovere di mantenere, senza orgoglio o presunzione, l'equilibrio mondiale". Anche se questo non significa che non lo cerchi».
E dove lo cerchi?
«Ho scritto un libro, Codex Latitudinis, con delle proposte per il futuro del pianeta Terra».
Modestia a parte...
«Dev' esserci al mondo qualcosa, un parametro, in grado di metterci d'accordo tutti sui problemi etici, morali e politici del nostro tempo. Lo troveremo sull'orlo del baratro, quindi tra poco».
E chi non è d'accordo, lo diamo in bocca a Mangiafuoco?
«Capisco il rischio. Però non possiamo andare avanti in eterno con i guelfi e i ghibellini. Il Paese è prigioniero di due fazioni che si scontrano ferocemente senza esclusioni di colpi e senza regole. Porteranno la nostra Italietta allo sfascio totale».
Le notti magiche d'altronde non ci sono più. È la seconda volta di fila che bu chiamo le qualificazioni per i Mondiali...
«Quanto mi costò quella canzone. Quando Caterina Caselli e Gianna Nannini mi chiesero di scriverla, domandai loro se fossero impazzite. Sapevo che per la spocchiosa élite culturale rappresentavo l'eversione e non sarei mai stato perdonato, se avessi fatto un inno patriottico. Poi alla fine la scrissi, con il mio amico di cortile, Gino Magurno.
Fu bellissimo tornare a suonare a San Siro davanti a una folla festante ma venni contestato subito, ci rimasi male e ancora oggi mi dispiace. D'altronde, cosa si aspettavano?».
Li avevi già delusi?
«Erano diventati scettici nei miei confronti, ai concerti di Autonomia Operaia, quando chiudevo la performance suonando con una trombetta sia Bandiera Rossa sia Faccetta Nera. "Nella mia categoria è tutta gente poco seria, di cui non ci si può fidar". Quelle Notti Magiche hanno dato loro il colpo di grazia. Per consolarsi, gli restano quelli che cantano ma non appartengono alla mia categoria».
A me Notti Magiche piace, anche se non abbiamo vinto...
«Lo sport è legato a un numero, che ti dà il tuo valore. Sbagli il rigore e passa un altro. Nella mia categoria c'è sempre qualcuno che decide che "non puoi rifiutarti, che sei pazzo e incosciente, un irriconoscente, un sovversivo un mezzo criminal". Però quella canzone mi ha lasciato un regalo».
È il momento dell'aneddoto.
«Nel 1991 a Pistoia suonava B. B. King. Gli chiesero se voleva duettare con me e lui rispose "Bennato, chi è costui?" Quando gli dissero che ero quello dell'inno dei Mondiali, acconsentì e sul palco intonammo Signor Censore, "che fai lezioni di morale e hai l'appalto per separare il bene e il male". Risuonammo insieme in Sardegna e lui mi salutò dicendo, "Ehi man, tu puoi suonare il blues". Il mio Mondiale l'ho vinto».
E l'Italia oggi com' è, guelfi e ghibellini a parte?
«Traballa su tacchi a spillo, "un rapido sempre in ritardo, una spiaggia libera, un rischio da evitare"».
Per fortuna noi italiani vogliamo bene alla mamma...
«Ma la mia era degli anni Cinquanta, aveva i piedi per terra...».