Calà: "I Gatti di vicolo Miracoli si sciolsero per colpa di Bud Spencer"
I 70 anni del comedian tra amrcord e progetti
Jerry e i suoi fratelli: un racconto, direi, quasi apostolico. Negli anni 80, non eravamo soltanto noi liceali usciti dal Classico Scipione Maffei di Verona - trascinati dal vento del logos e della scemenza- a canticchiare Verona Beat (dedicata a quella scuola) e a trattare i Gatti di Vicoli Miracoli (che in quella scuola s’erano diplomati) e il loro “umorismo ebraico newyorkese” come i londinesi trattavano i Monty Python o i parigini Le Charlots, i loro “Cinque matti”. No. C’era, allora, mezza Italia a schiantarsi di risate per Umberto Smaila, Ninì Salerno, Franco Oppini e Jerry-Calogero Calà, i surrealisti della risata usciti da una breccia dell’Arena e entrati nella storia dello spettacolo. Per questo -e molto altro- i 70 anni di Calà meritano rispetto.
Caro Jerry Calà, la notizia è che lei ha festeggiato il suo compleanno –nel bene o nel male, un pezzo del costume italiano- all’Arena di Verona. Cioè: non posso credere che le abbiamo dato davvero l’Arena per spegnere le candeline?
“E’ un sogno che si realizza, da bambino me ne stavo fino a notte sotto l’Arena per fermare i cantanti del Cantagiro. Ora alcuni di loro come Vandelli e Shapiro sono diventati miei amici e sono venuti al mio show; io ha fatto il mio e poi mi sono passati a trovare gli amici (da J’Ax a Boldi a Greggio e Boldi, da Gigliola Cinquetti a Spagna a Fabio Testi per restare nel veronese). Fino ad arrivare al clou: la reunion di noi quattro Gatti che cantiamo Verona Beat, che è diventato l’inno della città”
Leggendo la sua biografia che è un po’ quella di un brandello d’Italia, salta sempre fuori qualcosa di nuovo. Per dire: è vero che voleva fare l’insegnante?
“Sì avrei voluto fare il prof. Come mia madre. Mio padre invece era interprete, da lì la mia passione per le lingue, anche morte: avevo 8 in greco e latino e mi ero iscritto a Lettere Classiche a Bologna. Con molta sofferenza, a dire il vero. Finché mi ha chiamato Umberto Smaila che faceva giurisprudenza con scarsi risultati anche lui. ‘Jerry, noi molliamo tutto e tentiamo al Derby di Milano. Vieni con noi?’. A rispondere ci misi un nanosecondo. L’avventura iniziò nel luglio del 1971”
E ci furono il Derby, i film da box office come Arrivano i Gatti, i programmi tv? Che ricordi le affiorano?
“Soprattutto i tempi di non stop. Erano leggendari, da lì è uscito lo spettacolo italiano degli ultimi 40 anni; c’era La Smorfia con Troisi, I Giancattivi, Verdone , noi Gatti. E c’era Enzo Trapani che ci dirigeva con una pistola infilata nella fondina sotto l’ascella…”
I Gatti si sciolsero perché lei –si dice- sfanculò tutti e si diede alla carriera solista. Tutti noi fan e i suoi compagni di lavoro cademmo in depressione. Come andarono davvero le cose?
“In realtà, c’erano già dei problemi di convivenza, il rapporto si era logorato: io e Umberto puntavamo più al cinema e alla grande tv, mentre Ninì e Franco puntavano più in alto, sul teatro. Ci eravamo dato un anno di tempo per capire che cosa fare. La crisi coincise con una mega offerta che mi fecero per girare da solo tre film; quando lo dissi ai ragazzi s’incazzarono. Però io, per mesi, feci le due cose: i film da solo e le serate con i Gatti. Ero distrutto, non ci stavo dietro. Finché, rientrando una notte sul set di Bomber sbattei contro Bud Spencer (che era il protagonista del film) a braccia incrociate. Mi disse, ruvido: ‘Così non va, devi scegliere, o una cosa o l’altra, sennò fai male tutte e due’. Così scelsi”
Cioè lei si ritirò per paura di essere menato da Bud Spencer? Suppongo che gli altri non l’abbiano bevuta del tutto…
“Con Franco e Ninì ci riconciliammo quasi subito. Umberto invece era un osso più duro, ma alla fine ci riprendemmo. Anzi lui, essendo un grande musicista, compose le colonne sonore di alcuni miei film. Come Odissea nell’ospizio uscito su Chili, dove c’eravamo tutti”
Smaila racconta che Woody Allen scrisse per voi Gatti l’atto di una commedia che voleva farvi recitare. Ricorda l’episodio?
“Certo. Allen ci invitò a New York a nostre spese, nella buona tradizione dello ‘spirito ebraico-newyorkese e ci disse: “Io ho visto tutto quello che fate, vorrei che recitaste una mia commedia”. Dovevamo presentarla al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Solo che il direttore del festival pretese che Woody fosse presente alla prima. Allen ci chiamò e fece una battuta memorabile: ‘Shakespeare non è mica andato a Verona a vedere la prima di Romeo e Giulietta’. Sarebbe venuto, ma sentendosi costretto, fece saltare tutto. Peccato”
Peccato anche che il Diario di un vizio di Marco Ferreri con lei protagonista esaltato a Berlino, naufragò al botteghino. Come la prese, allora?
“Per Diario di un vizio, un film difficilissimo, vinsi il premio come migliore attore, datomi da quegli stessi critici italiani che, anni prima, mi avevano massacrato per i film comici; mi invitarono a cena, pacche sulle spalle. Poi tornai ai film comici, e ricominciò il massacro. E dire che c’era in platea il regista Werner Herzog, il quale mi fermò dicendomi che, se avessi avuto un figlio, dovevo fargli vedere quale capolavoro d’interpretazione avesse fatto papà. Naturalmente, anni dopo, lo feci vedere a mio figlio”
Brutta cosa, passare dalle stelle della critica alle stalle dei cinepanettoni (così la vedeva, almeno, la critica)…
“Ma guarda che prima di Ferreri, già con Marco Risi iniziai un percorso da commedia all’italiana virata sul drammatico: Vado a vivere da solo, Un ragazzo e una ragazza scritto da Furio Scarpelli, Colpo di fulmine. Persi il carro dei Vanzina e molti soldi, ma incontrai Ferreri e Pupi Avati. Mi venne voglia di fare il regista, rifarei tutto. Il fatto è che in Italia c’è il pregiudizio che i veri attori siano quelli drammatici, mentre quando in America dici “I am a comedian” si tolgono il cappello…”
Nel ’94 lei la scampò in un incidente quasi mortale in macchina. Lei - diciamoci la verità- era un cazzerellone con la fissa delle donne e del lavoro. Quell’evento le ha cambiato in qualche modo la priorità dei valori?
“L’incidente fu una svolta. Ero sulla statale in rientro da Verona: prima cena con mia madre, poi serata da Smaila a cantare e ballare dopo aver girato un film tutto il giorno. Ero stanchissimo, un colpo di sonno mi buttò fuori strada. Il non avere la cintura mi fece sbalzare dall’abitacolo nello schianto. La fortuna è che la temperatura sotto zero mi bloccò l’aorta recisa. Da allora ho cambiato la prospettiva: prima la vita in sé, poi la famiglia, gli amici e è il lavoro molto più in fondo”
Quando, iniziando le sue serate one-man- show all’insegna della nostalgia disse “Sono il re della notte”, Smaila un po’ se la prese perché c’era già lui. Vi siete chiariti?
“Non c’è mai stata rivalità tra me e Umberto, sono i giornali che parlano per titoli. Facciamo due cose diverse, non ci accavalliamo, anzi, ogni tanto ci scambiamo i lavori. Umberto è musicista puro, davvero da premio Oscar e canta come un usignolo. Io faccio più il mio show: intramezzo, battuteggio, la butto sul comico”
Calà, cosa vuol fare, ancora, da grande?
“A me piace sempre recitare, sto preparando un nuovo film, con mio figlio Johnny che ora si è diplomato al liceo. Si è iscritto al Dams, è un cinefilo accanito e vuole fare il regista. Non mi aspetto di meglio…”