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Gigi Proietti il genio amato da tutti perché non apparteneva a nessuno

Gigi Proietti

Onesto, poliedrico da Shakespeare a Febbre da cavallo alla tv: vita, morte e miracoli dell'ultimo grande one man show

Francesco Specchia
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L’ultima mandrakata -sul tappetto musicale del film Febbre da cavallo- Gigi Proietti l’ha fatta andandosene senza avvertire, raccomandando di ridere al suo funerale, perché “chi nun sa ride m’insospettisce”. 

La morte di Gigi Proietti, a 80 anni nel giorno del suo compleanno, è stato l’ultimo colpo di teatro, il rombo di tuono dell’artista italiano più completo di sempre (se la batteva solo con Vittorio Gassman, più aristocratico). E ha coperto l’Italia in un sudario di tristezza. Proietti, romano fino al midollo, è stato, in 50 anni di carriera: l’attore assoluto, il regista teatrale perfetto, l’interprete shakespeariano più eclettico, l’one-man-show più strabordante. Quando nel ’76, la Rai propose il suo monologo A me gli occhi please quella gimkana di canzoni, imitazioni, paradossi, lapilli di talento puro -500mila presenze all’Olimpico di Roma- cambiò per sempre la prospettiva della performance teatrale. Proietti, come il suo mito Ettore Petrolini era soprattutto, un formidabile “interprete h24”. Recitava gli uccelli di Aristofane indossando una calzamaglia verde da upupa. Vedeva una chitarra e partiva con gli stornelli; e se non c’era la chitarra usava il pianoforte e il contrabbasso e se mancavano pure quelli si trasformava in un barzellettaro sullo stesso piano di Bramieri e Walter Chiari o in un maestro del gramelot alla Dario Fo. Incontrava in un set Enrico Montesano, Mario Carotenuto e un equino e creava un film-cult, Febbre da cavallo, rimasto nella storia; ma se, invece si intratteneva con Monicelli ecco che ti usciva Brancaleone alle crociate, in tutti i ruoli finanche nel ruolo delle Morte. Conosceva Robert Altman e quello gli offriva subito un film da girare con l’eterno gemello Gassman (Un matrimonio), lasciando spazio alla loro esplosiva improvvisazione. Gigi inciampava in poeti come Fosco Maraini e recitava Il lonfo (“non vaterca né gluisce/e molto raramente barigatta) prodotto di metasemantica studiato nelle università. Se, poi, gli si avvicinavano alcuni ragazzi aspiranti attori Proietti creava al Brancaccio un’accademia filodrammatica, e quei suoi allievi diventavano Insinna, Brignano, Chiara Noschese, Tirabassi, ecc… Se invece su di lui si allungava l’ombra del teatro elisabettiano, eccolo mutarsi nel direttore del Globe Theatre dove per vezzo recitava la vita del grande attore inglese Edmund Kane. Se lo prendeva a braccetto Carmelo Bene lui illuminava la Cena delle beffe. Proietti era l’allegro eclettismo degli dei scesi sulla Terra. 

 Gli chiedevano anche di prestare la sua voce profonda come le viscere di Roma; e lui, nei doppiaggi, si calava in Richard Burton, Richard Harris, Marlon Brando, Robert de Niro e Dustin Hoffman, perfino in Sylvester Stallone che grida “Adrianaaaaa!”, nel primo Rocky, perfino nel Gatto Silvestro. Proietti era figlio della guerra, aveva negli occhi l’eterno stupore del giorno conquistato. Non ne sbagliava una. In tv fu un vero fenomeno. Ricordo nel ’74 un suo multiforme Sandokan molto prima di Kabir Bedi; e i mille sceneggiati e i Festival di Sanremo. E poi l’incontro con la divisa del Maresciallo Rocca per cinque stagioni, e la toga dell’Avvocato Porta, e il saio di San Filippo Neri, e La pallottola nel cuore del cronista di nera Bruno Palmieri. Proietti era un mostro: 33 fiction, 42 film, 51 spettacoli teatrali di cui 37 da regista, e 10 album come solista e la direzione di 8 opere liriche. Non si poteva dirne male perché non c’erano appigli: aveva la simpatia di Fiorello, la tecnica di Dino Risi e Steno, la cultura di Bene e la libertà di pensiero politico di  Pasolini. Era di sinistra e antifascista. Ma quando, nei camerini dopo uno spettacolo nei borghesissimi Parioli, D’Alema gli disse: “Vedo che il popolo è con lei”, lui commentò: “Il popolo? Capii che la sinistra non aveva ben focalizzato”. Aveva litigato con Franceschini per l’inglesizzazione del nome di Roma, e con la Raggi che con Roma stava tirando troppo la corda. Vittorio Feltri scrive: “mi disse: se parlo con uno di destra, mi sento di sinistra, se parlo con uno di sinistra divento subito di destra. Era un genio”. E ha ragione. Gigi era un genio che lascia orfani una famiglia discreta e bellissima. E milioni di italiani che, in mezzo secolo, ha fatto sbrilucciare di lacrime di gioia. Addio, maestro…

 

 

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