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Marco Mazzoli, intervista definitiva: 'Leone? Di lui non mi manca una cosa. Zoo, Grillo, Trump. Tutta la verità'

Leonardo Filomeno
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«Tutti vogliono imitare lo Zoo di 105, tutti vogliono fare lo show. Ma la musica dov’è finita?», esplode con un sorriso Marco Mazzoli. Sono 18 anni che il suo programma è in orbita. Amatissimo, odiatissimo, super ascoltato, super esagerato, finirà solo quando fioccheranno i guinzagli: «Rispecchiamo l’Italia in toto, siamo liberi, diciamo quello che gli ascoltatori pensano. E abbiamo più credibilità di tanti giornali», chiarisce. Anche a microfoni spenti, per Mazzoli politicamente corretto vuol dire orticaria. È una mitragliatrice, non risparmia nemmeno i biscotti col caffè e le vitamine che ha davanti. La radio e la musica dance sono la sua vita. E, pur appartenendo a generazioni diverse, quando si parla della crisi di questi due mondi concordiamo su troppi punti. «Mi inventai lo Zoo perché sapevo di non poter competere musicalmente con Albertino, sarei stato una sua brutta copia, come tante negli anni ’90. Pensai a uno show comico per il pomeriggio, nessuno lo faceva all’epoca».

Non è che tutti vogliono fare lo show perché il coraggio di puntare sulle novità manca? 
«In molti casi è la credibilità che manca. In un programma ideale, servirebbero una buona selezione e un po’ di intrattenimento in meno. Rtl vince perché ha un segnale della madonna, parlano poco e, tolte rare eccezioni, non sai manco chi c’è in onda. Chi sceglie me, invece, vuole sentire cosa dico». 
Ti lamenti spesso di come è messa la dance, a buon ragione.  
«C’è chi continua a tirar fuori cagatine perché può farsele produrre dal David Guetta di turno. Ci sono quei 4 big che sfornano collaborazioni col dj star. E poi ci sei tu, che se sei fortunato guadagni 15 euro».  
Se scrivi che un disco è brutto o scopiazzato male ti bollano come nostalgico. 
«La dance si è mescolata col pop e con l’hip hop, le canzoni sono tristi, si va avanti a rifacimenti. Con gli anni ’80, potrei citarti mille titoli, se guardo al 2013 non mi viene in mente niente. È come con i pensieri che posti su Facebook: quanto durano? La vita è diventata usa e getta, abbiamo talmente tante risorse da aver perso la cognizione di ogni cosa. Ormai anche i miei ascoltatori si sentono dei vip e fanno dirette video, come se avessero realmente dei fan. Non c’è più un leader. E se non sei un leader non vai da nessuna parte». 
I social, per assurdo, sono complici di questo stallo? 
«Chi doveva sfruttare la rete ne ha approfittato da tempo. La radio è un mezzo lentissimo, nell’ascesa e nella discesa, ma ti permette di costruire qualcosa di duraturo. I giovani, nel migliore dei casi, puntano a fare i fenomeni su Facebook, così grazie alle tonnellate di like faranno qualche serata e poi torneranno nell’oblio di partenza. Nel peggiore, qualcuno li manda in onda perché raccomandati, o con migliaia di like su Instagram». 
Dove si potrebbe pescare qualcosa di nuovo? 
«Servirebbe un ragazzo giovane, credibile, che vive nei locali. Il panorama rap italiano è pieno di nomi spendibili. Reclutare nei talent gente come Simona Ventura, che, col massimo rispetto, di musica non capisce un cazzo, o Ambra, che ha fatto 2 dischi di merda negli anni ’90, non mi sembra siano state delle scelte illuminanti (sorride, ndr)». 
Lo stile dei pochi che hanno successo è puntualmente sopra le righe. 
«Puoi permetterti quello stile sempre se risulti credibile. Un programma come lo Zoo lo è, anche se di primo acchito sembra solo volgarità gratuita». 
Lo Zoo ha sdoganato la conduzione collettiva. 
«Un dj che vada in onda da solo non esiste più, un tempo eri tu la star. Il fatto che abbiamo permesso al tecnico di intervenire ha reso dei personaggi tutti i registi d’Italia. I jingle sono l’oltretomba. E un po’ mi dispiace». 
Per qualcuno la spalla o il gruppo sono stati la salvezza. 
«Siamo diventati tutti complementari. Ho creato un gruppo che mi fa stare sicuro. Passo la palla a chi fa gol». 
Il fatto che tu viva a Miami sembra non aver tolto nulla al programma. 
«Prima di trasferirmi firmai un documento in cui mi impegnavo a tornare in Italia qualora gli ascolti fossero calati. Così non è stato. Gli altri sono in Italia, ma la sintonia è perfetta. Alle 5.30 del mattino guardo le notizie, alle 8 (le 2 di pomeriggio in Italia, ndr) mi collego con Milano per la diretta». 
Hai detto: «Mi chiedono ancora come abbia fatto a sopportare il tradimento di Noise, Alisei e Wender». 
«Sono tornati perché, uno alla volta, si sono scusati, ammettendo che da soli non rendevano come col sottoscritto. Per il bene del programma, ho abbassato l’ego e ho buttato giù tanta merda. Il loro modus operandi fu terribile, imperdonabile, fecero tutto alle mie spalle, nonostante un’amicizia che durava da anni. All’inizio temevo di aver insegnato loro troppi segreti. Ma un contesto in cui non potevano esprimersi al 100%, come quello della radio concorrente, non li ha aiutati. Paolo Noise fa ridere se è Paolo Noise, se lo metti a parlare di robe serie dopo 2 minuti ti rompi i coglioni». 
Un po’ avrai sorriso quando la loro avventura a Radio Deejay è finita. 
«Sorriso soltanto? Mi sono fatto proprio una sega! In quel momento avrei potuto schiacciarli, ma non sono rancoroso, sarebbe stato un gesto da uomo piccolo. Non credo che la gratitudine sia un sentimento di questo pianeta. Ho preso parecchi schiaffi perché, a differenza di quanto senti in radio, sono troppo buono. E sul fidarsi ho imparato a dare retta ai proverbi. Se dovesse accadere ancora saprei cosa fare: ho sempre un piano B, a volte anche C». 
Leone di Lernia ti metteva spesso in guardia. 
«Scriveva e chiamava tutti i giorni, a prescindere dal fatto che rispondesi o no. È stato l’uomo più affidabile che abbia mai incontrato. Ho perso un amico, una parte della mia quotidianità. C’è sempre stato, anche nei momenti difficili con la radio, chiaramente pure per un suo tornaconto…». 
Ossia? 
«Ossia era un furbone, pensava molto ai cazzi suoi. La cosa che non mi manca di lui è l’invadenza, soprattutto quando non richiesta. Doveva esserci a tutti i costi, a volte era di troppo. Era un cacacazzo (ride, ndr), un uomo tremendamente attaccato ai soldi. Uno stronzo che, invecchiando, è diventato un nonnino. Ecco perché lo chiamavo vecchio di merda, ma gli volevo un bene dell’anima». 
Il fatto che fosse fuori dallo Zoo è oggi un rimpianto? 
«No, aveva esaurito il suo meccanismo comico, funzionava sporadicamente, e l’età non gli consentiva di stare più ai nostri tempi. Avrei voluto, anche solo per illuderlo, scrivere la sceneggiatura del film che sognava di fare, gli avrebbe fatto piacere. Nella disgrazia, ho avuto la fortuna di trovarmi in Italia quando si è ammalato seriamente. Me lo sono goduto fino all’ultimo». Era così veramente? 
«Era così veramente». 
C’è qualche personaggio che ti penti di aver preso di mira, col senno di poi? 
«No». 
Chi ha fatto più male allo Zoo? 
«Tutti, per anni, hanno snobbato i nostri successi. Il miglior modo per non fare emergere qualcuno è non parlarne». 
Se vivessi in Italia chi voteresti? 
«Non mi piace nessuno. Sono dispiaciuto per i 5 Stelle. Grillo aveva una bella visione. Ma la politica è come la chiesa: è fatta da uomini. E gli uomini commettono costantemente atti impuri. Magari su 100 di loro i corrotti saranno 3, ma appena li scopri devi cacciarli, altrimenti non sei più credibile». 
Di Trump che pensi? 
«Se avessi potuto votare in America, avrei scelto lui. La Clinton mai, la reputo una persona falsa, basta leggere cosa ha combinato. Trump non è un santo, però è l’uomo che gli americani vogliono. Obama è stato molle, invece l’America è guerrafondaia, è un bluff. Da sempre. Dai tempi di Kennedy. Hanno voluto far passare il messaggio di essere i più fighi del mondo. È una modalità che noi italiani dovremmo fare nostra, le cose più folli le abbiamo inventate noi, invece guarda come siamo ridotti…». 
Una vita fuori dallo Zoo la immagini sempre in America? 
«Sì, e vorrei stare più dietro le quinte. Amo scrivere ma il tempo per farlo oggi non c’è. Né sono così ricco da potermi godere i risparmi, li ho spesi. Un giorno potrei ritirarmi a Los Angeles. Oppure la mia pensione potrebbe essere Revolution Radio Miami, la radio dance che ho a Miami. Non snaturerei il suo dna, né la porterei mai in Italia». 
Guardando oltre lo Zoo, da fare cosa ti manca? 
«Non mi sono mai sentito arrivato, la sensazione è quella di dover cominciare daccapo sempre. Sono in costante sfida con me stesso». 
Il microfono acceso come la miglior goduria quotidiana? 
«È come sparare cazzate al bar con gli amici, anche se bastano due persone in studio a guardarmi e vado in paranoia, rischiando di far cilecca. Visto da fuori, lo Zoo è l’angolino perverso dei perbenisti. È l’amante, non la fidanzata fissa. Il programma che ascolti di nascosto per goderti le minchiate che diciamo. Per il nostro editore, uno con residenza a Monaco, titolare di Radio Monte Carlo e inserito in un certo giro, all’inizio era l’anticristo. Ovvio che non appena iniziarono ad arrivare i dati d’ascolto iniziò a divertirsi pure lui. Anche se oggi l’abbiamo sdoganata, sentire una parolaccia, per la persona snob e ricca, è come trovarsi sulla metropolitana e intravedere un seno dalla camicetta sbottonata della signora più elegante. È una goduria pazzesca». 
Di persona sei un tipo riservato: ti definisci un tristone, un orso. 
«La diretta è il mio sfogo, la radio quella passione che mi fa tornare bambino. Tira fuori quel lato aggressivo che fa paura a tutti, che nella vita privata manca e che mi ha procurato tanti problemi, anche legali. È come trovarsi ogni giorno sul precipizio e pensare: Mi butto o non mi butto? Massì, sono in diretta, mi butto… Probabilmente con un paracadute non riuscirei mai a lanciarmi, però chiunque lo abbia fatto dice che nell’istante in cui si apre il portellone e ti butti nel vuoto si sprigiona dentro di te un senso di libertà indescrivibile. A me quella libertà riesce a darla solo il microfono. Lo Zoo è il Dr. Jekyll and Mr. Hyde della mia vita. Il mio bungee jumpin personale».

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