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Virzì, 700mila euro al regista per insultare chi lavora

La pellicola "Il capitale umano" è la storia di un finanziere senza scrupoli. Fondi pubblici per dipingere la Brianza come terra di avidi e corrotti
di Andrea Tempestini domenica 12 gennaio 2014

3' di lettura

Decenni passati ad arrovellarci su come  rimettere in pista l’Italia, quando bastava chiedere a Paolo Virzì. Alla modica cifra di settecentomila euro - soldi pubblici versati dal ministero per i Beni culturali - abbiamo la soluzione: bombardare la Brianza col napalm. A tappeto. Che non si salvi un mobilificio canturino, mezza fabbrichetta di componenti meccaniche monzese né un centimetro di chissà quale linea produttiva del Varesotto. Renzi prenda nota, se invece di cazzeggiare con Letta gli venisse voglia di far qualcosa veramente di sinistra è il caso che si procuri una flotta d’aerei.   Il capitale umano, ultima fatica del regista livornese più amato dalle editorialiste di Repubblica, narra le vicende di un finanziere farabutto che truffa chiunque lo circondi ed è disposto a tutto, perfino a camminare sui cadaveri, pur di intascarsi un soldo in più. Un bel thrillerone,  trasposizione sul grande schermo d’un bestseller americano, che da domani potremo sciropparci al cinema. Solo che Virzì è convinto d’aver girato un documentario. Soldi, sangue, ignoranza, cupidigia: per lui sono l’alfa e l’omega di quella fetta di Lombardia. Un’unica grande spianata popolata da trogloditi, evasori, arrampicatori «plasmati dal Berlusconismo» che nell’attesa di trasformarsi nel nuovo Cavaliere votano quello vecchio e ingannano l’attesa «in grumi di villette pretenziose  dove si celano illusioni e delusioni sociali». Un quadro che oltretutto sarebbe, tolte le sfumature peculiari di ogni latitudine, affresco dell’intero Nord, dal Piemonte al Triveneto.  Sul quotidiano di Eugenio Scalfari hanno piazzato due pagine in due giorni di entusiastiche considerazioni sullo spessore culturale dell’opera e del messaggio che ci lascia. Ha iniziato Natalia Aspesi all’Epifania (intervistona al regista, con finissima critica sociale sui luoghi che valgono il 40% del Pil nazionale): «L’ho scelta (la Brianza) perché è vicina a Milano, dove c’è la Borsa, dove ogni giorno si creano e distruggono patrimoni». Maledetta Piazza Affari, che non smette mai di sgorgare sterco del demonio. Con lo schifo che gli fanno i soldi, non si capisce come abbia fatto Virzì a prendere in mano l’assegno da 700mila cucuzze che gli ha staccato il Mibac. Forse ci ha mandato un fattorino. Non si salva il capoluogo, men che meno la provincia: «Ho girato nella campagna di Osnago, nel centro storico di Varese, di Como, città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina. E che ha una parte importante nel film, come simbolo di un inarrestabile degrado e sottomissione al denaro». Per la cronaca Como ha un altro palcoscenico, quello del Sociale, dove si esibiscono regolarmente grandi nomi del teatro; è una delle patrie dell’architettura razionalista e con le grandi mostre di Villa Olmo ha portato quasi un milione di visitatori al cospetto delle opere di Magritte, Mirò, Brueghel e Picasso. Poi ha vinto le elezioni il centrosinistra e le mostre son finite.  Ieri il bis di Repubblica.  Concita De Gregorio  stende una recensione adorante della pellicola e sputtana la Brianza: «(...) stoffe pesanti per il freddo che c’è dentro casa e anche fuori, su al Nord, la sete per le sere di festa, le lamette per la disperazione, l’alcol per non pensarci, uno zainetto e una tuta per scappare, caso mai». E, aggiungiamo noi, i «padroni» tanto avari e miserabili che s’impiccano in ditta perché non hanno di che pagare lo stipendio ai dipendenti. È un insulto alla parte, se non migliore, più virtuosa d’Italia. Tanto che lo stesso Virzì ha sentito l’esigenza di un signorilissimo tweet di smarcamento in risposta alle accuse de l’Intraprendente, quotidiano indipendente del Nord: «Ma io voglio bene al popolo del Nord, so a memoria i cori alpini e adoro il risotto. Sono quelli di Repubblica che mi dipingono così». Intascati gli schifosissimi settecentomila euro il resto, ossia la colpa, è mancia per le dame di Repubblica. di Fabio Corti

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