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De Andrè parla in romanesco, e Genova si ribella

di Alessandra Menzani domenica 7 gennaio 2018

3' di lettura

Visto con l’occhio del genio ligure, Fabrizio De Andrè, da pregiato esegeta dei dialetti e delle lingue minoritarie (scriveva canzoni anche in napoletano, tedesco maccheronico, perfino romanes indoariano zingarico...), probabilmente ne riderebbe. Eppure. Eppure un po’ turba, e un po’ attizza la polemica da marketing cinematografico, il fatto che nel film-biografia in uscita sul grande cantautore, Principe libero, l’attore protagonista Luca Marinelli ostenti una cadenza «tutt’altro che genovese e spiccatamente del centro-sud», come lamentano i puristi. Puristi genovesi, ovvio. Due premesse necessarie. La prima è che nello spot che circola del film Rai diretto da Luca Facchini, De Andrè/Marinelli pronuncia solo mozziconi di frasi, tipo: «A me sembra di sì, invece» diretto ai suoi discografici intonati sul napoletano; «essere anarchici, darsi delle regole prima che lo facciano gli altri», quasi sussurrato; «e se non avessi più niente da dire?», recitato -molto bene- col classico sguardo in tralice di Faber, capelli al libeccio, sigaretta nella mano che rotea nell’aere. Quindi, sì. Si può intuire che la parlata non declini nel dialetto; e, d’accordo, non s’avverte la “cocina” salmastra dei genovesi. Ma un’analisi linguistica più articolata è abbastanza ardita. Seconda premessa, Principe libero, da una citazione della copertina dell’album Le nuvole, abbisogna di un lancio poderoso sul grande e piccolo schermo. E la solita querelle sulle lingue nelle fiction diventa comodo strumento di battage pubblicitario. E ci sta, abbiamo visto di peggio. Però. Però ciò non toglie che sentire la «voce di Dio» -come chiamava De Andrè Fernanda Pivano- striata di romanesco, stride. Il vizio -spesso vezzo- dei produttori romanocentrici è storia antica. Anni fa il viceministro leghista alla infrastruttura Castelli, all’apertura milanese di Polo cinematografico lombardo (?) , attaccò il tv movie su Papa Giovanni XXII: impensabile che un tenace bergamasco, in tv, ricordasse un parroco di Torpignattara. Il padano Castelli venne democraticamente linciato da politici e produttori romani, sia a destra che a sinistra. Ma non aveva tutti i torti. Negli scenari umbri di Don Matteo l’unico che non parla romanesco è Terence Hill. Che ha l’inflessione americana. Tra le Dolomiti di Un passo dal cielo è più facile parlare con uno stambecco che con un altoatesino. Nell’Isola di Pietro, sarda, il protagonista Morandi si esprimeva nel suo simparico italo-bolognese,  romanesco il resto delle troupe. In Scomparsa, a San Benedetto del Tronto, non si trovava un marchigiano a pagarlo. Solo pochi attori romani si sforzano di recitare nell’idioma del territorio in cui vive il proprio personaggio: Pierfrancesco Favino (perfetto nel sergente veneto di El Alamein, 2002), Elio Germano (pure se il suo Felice Maniero era troppo carico) e Alessio Boni (unico piemontese nella Strada verso casa). Certo, mi si dirà, nessun attore romano possiede il camaleontismo linguistico di Vittorio Gassman. Neanche il pur bravo figlio Alessandro che nei Bastardi di Pizzofalcone interpreta con inflessione romana un ispettore  da Agrigento. E tutti i produttori (di Roma) hanno meno costi e più comodità di scelta nell’arruolare interpreti entro il raccordo anulare. Di solito, alla critica  reagiscono un generico «il problema non è la lingua ma far bene il proprio mestiere». E costringono gli sceneggiatori ad inventarsi poliziotti trasferiti per servizio, medici che traslocano per seguire il coniuge, psicologhe che scappano dal marito verso la provincia con i figli adolescenti (tutti con inarrivabile cadenza pariolina). Ora, le fiction ambientate al centro o al nord godono di contributi delle Film Commission regionali. Sicchè forse sarebbe meglio che i finanziatori imponessero una «quota attoriale locale». Si valorizzarebbero i talenti autoctoni. E tutti noi spettatori non-romani eviteremmo la secrezione biliare... di Francesco Specchia

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