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Turbercolosi colpa dei migranti?Parla il professor Massimo Galli

Il presidente della Società italiana malattie infettive e tropicali (Simit) e ordinario di malattie infettive dell’università degli Studi di Milano illustra la connessione tra patologie in aumento e contesto sociale
di Maria Rita Montebelli domenica 23 giugno 2019

Massimo Galli

3' di lettura

Dopo aver constatato che era stato sintetizzata male quanto avevo detto nell’intervista a una radio nella frase ‘Non si può negare connessione tra paese d’origine migranti e diffusione malattia’, ritengo importante su di una simile affermazione che ritengo ambigua e confondente operare una precisazione. È un dato di fatto che più un paese è povero, più è elevata la percentuale dei suoi cittadini che sono portatori di una tubercolosi latente. In merito alla connessione con la diffusione, cioè al rischio di trasmissione della malattia, è necessario un chiarimento. Secondo il rapporto della Organizzazione mondiale della sanità del 2018, il 23 per cento della popolazione mondiale, circa un miliardo e settecentomila persone, me compreso, ha una tubercolosi latente. Ha incontrato, cioè, nel corso della sua vita, il micobatterio della tubercolosi, senza sviluppare la malattia. Da un’infezione da Mycobacterium tuberculosis non ci si può mai liberare del tutto. Se dopo l’infezione il tuo sistema immunitario reagisce subito bene, costringe il batterio a nascondersi in particolari cellule, i macrofagi, ove resta ‘sotto sorveglianza’ per tutta la durata della vita dell’ospite. La probabilità che si riattivi, causando malattia, si calcola sia circa del 5-10 per cento, e dipende principalmente dalle condizioni - più povertà, più disagio, più riattivazione - e dalla durata della vita - gli infettivologi italiani sanno bene che gli ultra ottantenni che vengono ricoverati nei loro reparti per la riattivazione di una tubercolosi non sono rari - dall’insorgenza di malattie debilitanti e dalla necessità di assumere farmaci immunosoppressori, e in questo caso, i portatori di TB latente devono sottoporsi a particolari trattamenti preventivi. La frequenza della tubercolosi latente in una popolazione è proporzionale alle condizioni di vita e al livello igienico-sanitario che le sono garantite. Quindi oggi i paesi più poveri sono quelli con la più alta percentuale di tubercolosi latente. In Italia, la tubercolosi latente e la circolazione di M.tuberculosis hanno cominciato a ridursi  prima ancora dell’introduzione delle terapie antitubercolari ad alta efficacia, in relazione con il miglioramento delle condizioni di vita. Ciononostante, i cittadini italiani che ‘ospitano’ M.tuberculosis sono ancora molti. Tra gli italiani sopra i sessanta, anche se mancano dati recenti,  gli ‘ospitanti’ sarebbero il 20-30 per cento. Ipotizzando per difetto che nella intera popolazione siano il 10 per cento, gli italiani con tubercolosi latente sarebbero, me compreso, circa sei milioni. E non credo che nessuno di noi sia, si ritenga o voglia essere trattato come un potenziale untore. Gli italiani con tubercolosi latente sono quindi anche  più numerosi di tutti gli immigrati, e molto più numerosi di quelli tra gli immigrati che hanno una tubercolosi latente. La differenza sta tutta nelle condizioni di vita. Chi arriva dopo un viaggio disagevole, magari dopo un lungo soggiorno in condizioni miserevoli in Libia, non stupisce che abbia avuto più probabilità di riattivazione della tubercolosi. O di averla contratta in condizioni di sovraffollamento. Magari anche dopo essere arrivato in Europa, in situazione abitative precarie. Capita anche ai nostri connazionali senza tetto, che rappresentano un gruppo a rischio per la riattivazione della tubercolosi. È arrivato il momento di fare chiarezza, combattendo la malattia, e non le persone. I rischi legati alle condizioni di vita, e non chi li subisce.

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