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L'oliva ascolana tarocca, false nove confezioni su dieci: ecco come non farsi fregare
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L’Oliva Ascolana del Piceno è una Dop. Ma nonostante la tutela che le dovrebbe derivare dalla Denominazione d’origine protetta è uno dei prodotti più imitati del made in Italy. Non c’è supermercato che non venda “olive all’ascolana”, ma tranne qualche rarissima eccezione si tratta di imitazioni che non c’entrano nulla con la Dop. E spesso anche se non sempre sono pure cattive. Con un doppio danno al prodotto autentico: oltre a provocare un danno economico alla filiera, inducono nei consumatori una percezione errata sulla sua qualità. Nei mesi scorsi i Carabinieri Forestali hanno eseguito una serie di verifiche visitando alcuni produttori del Piceno, elevando anche alcune sanzioni proprio perché le aziende visitate - alcune appartenenti alla filiera della Dop- producevano olive ascolane tarocche. In pratica le solite volgari imitazioni. L’azione di contrasto all’usurpazione di una indicazione geografica riconosciuta dalla Ue si è però fermata lì. L’Ispettorato centrale per la tutela della qualità e la repressione frodi dei prodotti agroalimentari non ha dato corso alle multe. Disconoscendo di fatto l’attività dei Carabinieri Forestali. Ma non si è trattato di una dimenticanza, o peggio di trascuratezza. L’inazione dell’organo ministeriale discende da una “interpretazione” molto libera e fantasiosa, assunta negli anni immediatamente successivi alla registrazione della Dop. Ma andiamo con ordine.
Era il 2005 quando l’Oliva Ascolana del Piceno otteneva la certificazione di prodotto a Denominazione d’origine protetta. Ma l’anno successivo e quello dopo ancora, dunque nel 2006 e nel 2007, la direzione generale del Ministero delle Politiche agricole stabiliva arbitrariamente che «i termini “oliva Ascolana” ed “oliva all’Ascolana” fossero divenuti di uso comune e che l’uso degli stessi non contrastasse con la protezione accordata alla Dop “Oliva Ascolana del Piceno”», come ha ribadito in una missiva inviata nel 2022 al Consorzio di tutela dell’Oliva ascolana e firmata da Emilio Gatto, in qualità di direttore dell’Ispettorato anti frodi. Che si premurava di informare il Consorzio di tutela che «la registrazione di un nome composto non implica necessariamente la protezione dei singoli termini». Meccanismo, quest’ultimo, che avrebbe salvato ad esempio il famigerato Parmesan prodotto in giro per l’Europa, dal momento che l’evocazione della Dop Parmigiano Reggiano si ferma a un singolo termine.
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«Noi chiedevamo all’Ispettorato centrale anti frodi di prendere atto che la giurisprudenza in materia è esattamente opposta rispetto all’interpretazione data dal Ministero nel 2006 e nel 2007», spiega a Libero il presidente del Consorzio di tutela dell’Oliva Ascolana del Piceno Dop Primo Valenti, «la Corte di Giustizia europea, in più occasioni, ha precisato che la nozione di “evocazione” si riferisce anche all’ipotesi in cui il termine utilizzato per designare un prodotto incorpori soltanto una parte di una denominazione protetta». Una lettura confermata anche «delle recenti sentenze della Cassazione sulla tutela del “Prosciutto di Modena Dop” e sul “Pecorino Sardo” sui quali il Ministero ha avuto posizioni granitiche», aggiunge Valenti «ritenendo illecita evocazione delle due Dop rispettivamente la “Culatta di Modena” e il “Pecorino da tavola Pastore del Tirso Sapore Sardo”». La novità dei giorni scorsi è l’appello per una tutela adeguata dalle evocazioni firmato da Valenti assieme ai direttori delle locali confederazioni degli agricoltori: Matteo Carboni per la Cia, Giordano Nasini per Coldiretti, Tommaso Ciriaci per Confagricoltura e Gian Luigi Silvestri per Copagri.
Nell’appello i firmatari stigmatizzano «la riluttanza della politica e del mondo imprenditoriale nel comprendere il valore aggiunto che invece è rappresentato» dalla Dop. E i taroccatori delle Olive Ascolane del Piceno non si trovano soltanto nella zona di produzione della Dop. Da quello che risulta a Libero ci sono importanti poli produttivi di “olive ascolane” tarocche a Latina, Mestre e Brescia. Infine una curiosità. Chissà se Paolo De Castro, all’epoca dei pareri negativi emessi nel 2006 e nel 2007 dal dicastero delle Politiche agricole, era informato dei fatti, visto che in quegli anni era lui il Ministro dell’Agricoltura, nel governo di Romano Prodi. Chi lo frequenta sostiene che abbia avuto una “conversione” rispetto alle posizioni di quegli anni. Ora, volendo, ha l’occasione per rimediare a uno degli errori commessi allora.
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