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Riso, la riforma è un flop epocale: perché Arborio e Roma stanno sparendo

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Attilio Barbieri
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A certificare il fallimento clamoroso anche se non del tutto inaspettato della riforma varata nel 2017 da cui deriva l’introduzione della denominazione di riso “Classico”, sono i numeri delle superfici coltivate dagli agricoltori italiani. Confesso ai lettori che ho girato attorno al tema per diverso tempo. Anni, per l’esattezza. In un primo momento ho chiesto all’Ente nazionale risi il confronto nel tempo fra le superfici coltivate a Classico e le superfici coltivate con i similari. 

Il risultato è interessante ma non decisivo. Per capire davvero cosa sia accaduto bisogna mettere a confronto tre diverse tipologie di riso: il “Classico”, i suoi similari, e le varietà in purezza seminate dagli agricoltori che non rientrano però nella certificazione del Classico. Per semplificare, nel caso per esempio del Carnaroli, Carnaroli Classico, similari del Carnaroli e Carnaroli in purezza ma non denominato Classico. Soltanto così si possono comprendere gli effetti all’origine della filiera che conduce poi all’inganno finale sul bancone del supermercato.

Il raffronto non lascia dubbi. Con l’unica eccezione del Vialone Nano che però è una Igp e del Sant’Andrea, le altre varietà della tradizione alimentare italiana sono letteralmente soffocate dai similari. L’Arborio autentico rappresenta appena lo 0,7% della superficie di riso che sul bancone del supermercato assumerà la denominazione Arborio. Di più: gli ettari coltivati ad Arborio Classico sono in tutto 21, rispetto ai 19.993 dei suoi similari e ai 124 dell’Arborio in purezza ma non Classico. Va ancora peggio per il riso Roma: gli ettari coltivati a Roma Classico sono zero e i suoi similari rappresentano oramai il 99,89% della superficie seminata.

 

IL PIÙ FAMOSO D’ITALIA
Va soltanto un po’ meglio al Carnaroli. A fronte di una superficie di 18.265 ettari coltivata con i suoi similari vi sono altri 2.242 ettari di Classico e 4.002 ettari seminati a Carnaroli in purezza ma non Classico. Le imitazioni del riso più famoso d’Italia rappresentano comunque il 74,52% del totale. Dunque, sempre per rimanere su questa varietà almeno 8 scatole di Carnaroli su 10 che si trovano sul bancone del supermercato non contengono Carnaroli, giacché le rese dei similari sono ben superiori rispetto a quelle della varietà autentica.

L’ECCEZIONE DEL VIALONE
Il Vialone Nano fa eccezione, ma per un motivo molto semplice: è una Igp, vale a dire una Indicazione geografica protetta e quindi non può essere imitata. È per questo motivo che i suoi similari pesano appena l’1,73% delle superfici coltivate a Vialone Nano. Ignoro con quale denominazione finiscano poi sugli scaffali dei supermercati questi risi. La riforma approvata quando Maurizio Martina era ministro delle Politiche agricole puntava a correggere l’usurpazione legalizzata da una norma del 1958 sulla semplificazione del mercato interno del riso in forza della quale i similari- risi che assomigliano alla varietà autentica e ne condividono l’impiego in cucina - possono essere etichettati come il vegetale in purezza. A propiziare il disastro assoluto della riforma del 2017 contribuiscono alcuni fattori concomitanti. Innanzitutto l’infelice scelta della denominazione “Classico” per i risi in purezza. Denominazione il cui significato - e questo è un altro fattore critico che ha determinato il flop della nuova normativa - sfugge alla stragrande maggioranza dei consumatori.

Vale la pena di ricordare che le altre classificazioni proposte, sicuramente più calzanti e di immediata comprensione anche per un consumatore poco attento, sono state troppo frettolosamente scartate. È stato il caso delle denominazioni “Puro” e “Autentico”. Con la prima i similari sarebbero stati automaticamente associati dai consumatori a un riso “impuro”, che significava comunque far loro un gran regalo perché si tratta di risi diversi dalle varietà che imitano. Nel secondo caso, a fronte di un riso “Autentico” i similari sarebbero passati per falsi. Che poi è la sacrosanta verità. Ma questo non si può dire. La trasparenza in etichetta e a tavola? Può aspettare.

 

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