La tecnodestra esiste, non è un’invenzione retorica o un’arma impropria di lotta politica. Esiste, ma è tutt’altra cosa da quella che vuol far credere la sinistra. Anzi, è esattamente l’opposto. Né è un corpo monolitico: la si può definire “in negativo”, per ciò che avversa, cioè la cultura woke, ma non “in positivo” per quel che vuole. Tanto per cominciare non è nata oggi, né con Trump. Non è l’espressione di una rozza mentalità tecnocratica, ma è pregna di cultura non solo scientifica ma umanistica: un inestricabile «intreccio tra cultura, visione del mondo e affari».
Non vuole riproporre il fascismo, riadattandolo ai nostri tempi, ma si sente investita della missione di salvare una civiltà e una umanità che reputa giunte al capolinea.
Da qui lo sforzo di ridisegnarne i paradigmi culturali prima ancora che politici, persino oltre la classica distinzione di destra e sinistra. Tutto questo, e molto altro, si apprende dal nuovo libro di Andrea Venanzoni, tanto denso e dotto quanto di fascinosa leggibilità: Tecnodestra. I nuovi padroni del potere (Signs). Un ottimo strumento per chi crede che bisogna conoscere prima di giudicare. «La storia della tecnodestra – scrive Venanzoni – è certamente una storia di innovazione, idee ed alta tecnologia, ma è prima di tutto una storia di individui». Chi sono veramente, e cosa vogliono, Elon Musk, Peter Thiel e tutti gli altri? Sono degli sprovveduti «demiurghi del caos» oppure dei lestofanti che pensano solo ad arricchirsi e a dominare sul resto del genere umano, creando un governo oligarchico?
Il caso più emblematico, fra i tanti raccontati nel libro, è forse proprio quello di Peter Thiel, che si laurea a Stanford in filosofia proprio nel periodo in cui fanno capolino le prime teorie decostruzioniste e fa le prime prove la cultura (o sub-cultura) del politicamente corretto. Con straordinario intuito capisce prima degli altri ove si sarebbe andati a parare: nel 1975 pubblica, insieme a David Sachs, un libro profetico: “The Diversity Myth: Multiculturalism and Political Intolerance on Campus”. Mentre l’onda delle nuove idee monta, lui è dall’altra parte della barricata, quel “bastian contrario” che sempre sarà (“The Contrarian” è il titolo della biografia a lui dedicata da Max Chafkin). Mentre i suoi amici si laureano coi seguaci di Derrida e Foucault, lui diventa allievo di Réné Girard, raffinato e isolato filosofo cristiano. Andare controcorrente per Thiel significa sviluppare un “pensiero laterale” e aprire campi incolti con nuove esperienze e nuove teorie. Nel momento in cui tutti lodano la competizione, egli la giudica un modo sterile per guerreggiarsi su campi già arati e per seguire quell’istinto mimetico che per il suo maestro Girard è proprio del genere umano.
Per Thiel «non è importante – scrive Venanzoni – primeggiare in un segmento sovraffollato di idee, invenzioni, concorrenti, quanto scoprire nuove vie, nuovi cieli, nuove idee». Di qui la creazione della Stanford Review, in cui i cortocircuiti della correctness vengono uno ad uno smontati.
Oppure, sul terreno degli affari, l’intuizione di Pay Pal, il sistema di pagamento online che gli serve per arruolare tutta una serie di irregolari come lui, compreso Musk. Nel 2016 fa endorsement per Trump, assestando un duro colpo al conformismo progressista della Silicon Valley. È solo una storia, fra le altre, tutte ugualmente non banali. Dalla lettura del libro di Venanzoni emergono due grosse verità: l’ipocrisia della sinistra, che ha coccolato e vezzeggiato questi innovatori quando erano dalla sua parte per poi mostrificarli; l’incapacità della cultura liberal, ferma alle teorie della giustizia alla Rawls o a quelle dei diritti alla Dworkin, di leggere e interpretare il nuovo mondo. In esso, il tempo politico perde il carattere lineare delle ideologie del Progresso per assumerne un’altro entropico e imprevedibile. Tempi interessanti. E inquietanti, nel senso che non permettono a nessuno di cullarsi nella quiete delle certezze acquisite.