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Open Source, la carta vincente che piaceva a Musk

Sandro Iacometti
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C’è un doppio paradosso dietro l’improvvisa esplosione di DeepSeek, l’app cinese low cost di intelligenza artificiale che lunedì ha fatto sbandare le big tech al Nasdaq di Wall Street e gettato nel panico mezzo Occidente. Il primo è che, piaccia o no, dalla Cina comunista, autocratica e repressiva è arrivato un software che nella sua creazione ricorda lo spirito dei pionieri della rivoluzione tecnologica americana. Il secondo è che DeepSeek è esattamente l’IA che avrebbe voluto portare avanti Elon Musk. Tutto ruota al concetto di Open Source, che in soldoni significa che i suoi codici primari non sono protetti e chiunque può scaricare il programma, modificarlo e utilizzarlo senza costi. Al di là della filosofia più o meno anarco-libertaria che c’è dietro, i cui sostenitori più noti sono Richard Stallman e Linus Torvald (quest’ultimo creò Linux, l’unico sistema operativo per pc ancora oggi completamente gratuito e molto usato anche dai colossi del settore per la gestione dei server), l’open source consente a centinaia di programmatori sparsi ovunque nella rete di lavorare al progetto e di migliorarlo.

In questo modo l'evoluzione del software è veloce, di tipo lamarkiano: ciascuna caratteristica acquisita tramite il lavoro altrui può essere ereditata direttamente. Ed è esattamente questo il segreto del successo di DeepSeek, che grazie ai contributi esterni ha potuto contenere i costi di realizzazione (meno di 6 milioni di dollari) già abbattuti grazie all’ingegno del suo ideatore Liang Wenfeng, che ha sopperito alla scarsa quantità e qualità dell’hardware utilizzando una serie di trucchi ingegneristici e informatici. Ecco, creare un programma di IA completamente Open Source era il sogno di Musk. Ed è il motivo per cui, dopo averla fondata insieme a Sam Altman, è uscito da OpenAI, la società che produce ChatGPT, il programma ora leader di mercato insieme a Gemini (Google).

 

 

 

Detto questo, per quanto libertaria o anarchica nello spirito, DeepSeek è prima di tutto cinese. E non si tratta di un dettaglio. L’app infatti funziona in due fasi, nella prima il modello di intelligenza artificiale genera un risultato, nella seconda entra in funzione un modello secondario per verificare se il risultato è in linea con i valori del governo cinese. Per cui se chiedete di Piazza Tienanmen, dopo un secondo vi vedrete sparire sotto gli occhi il testo prodotto. Poi c’è la gestione dei dati degli utenti. E anche qui le preoccupazioni non mancano. Al primo allarme lanciato subito dall'Australia ieri si è aggiunta la richiesta di informazioni alla società da parte del Garante italiano per la protezione dei dati personali, che vuole sapere con esattezza quali sono i dati personali raccolti, da quali fonti, per quali finalità, e se sono conservati su server collocati in Cina.

 

 

 

Chi, malgrado la potenziale minaccia, non si è scomposto più di tanto, manco a dirlo è Donald Trump. Se l'intelligenza artificiale si «può fare a un prezzo inferiore e ottenere lo stesso risultato penso sia una buona cosa», ha detto ieri, annunciando comunque l’intenzione di «ripristinare il dominio Usa nel campo dell’IA» e sottolineando che DeepSeek deve essere «un campanello d’allarme» per la Silicon Valley. Chi resta a bordo campo nella sfida tra titani è ovviamente l’Europa, che finora ha brillato soltanto perla sua capacità di regolamentare il rischio, rendendosi pioniera con il Data Act, il Data Governance Act e l'AI Act. Cumuli di scartoffie che hanno avuto l’unico risultato di soffocare le aziende, impedendo loro di sviluppare in-house una propria tecnologia di intelligenza artificiale.

 

 

 

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