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Spotify, così l'Eden della musica è stato contaminato dalla legge dell'algoritmo

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Costanza Cavalli
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B ruce Springsteen e Tylor Swift, Dalla, Fossati, De Gregori e Calcutta, Mozart, Brahms, Britten e Achille Lauro, Bob Dylan e Talking Heads e Fulminacci e Rose Villain. Un sacco di blues, parecchio country, molto rock. Sta tutto nella cartella “Brani che ti piacciono” di Spotify: è la mia, non sono un caso clinico e non “ascolto un po’ di tutto”, seleziono quello che mi piace e resisto sette secondi, cronometro alla mano, quando una canzone mi schifa. Gli onnivori musicali (loro vi diranno che sono “eclettici”) sono quelli che non sanno scegliere e solitamente- ma questo vale anche per i fissati di un genere soltanto, che sia indie-rock o classica, hip hop, rockabilly o musica balcanica- ti propinano playlist orrende.

CRESCITA CONTINUA
«L’inferno è la musica degli altri», ha scritto una volta Momus, pseudonimo del musicista scozzese Nicholas Carrie. Nemesi dei nostalgici e degli inginocchiatoi su cui s’allineano i soloni della retromania, mannaia su vinili, giradischi e casse acustiche da pavimento in palissandro, su audiocassette, cd e walkman, a Spotify sarò (saremo) sempre grata: mi permette di trovare in fretta tutto quello che voglio e per tutte le volte che voglio, di ascoltare intere discografie e mi ha fatto scoprire autori che non conoscevo. Anche per questo è stato, per qualunque supporto musicale, l’uomo con il fucile che incontra l’uomo con la pistola. E, a oltre quindici anni di distanza dalla nascita, continua a crescere: conta 615 milioni di ascoltatori mensili (+19% anno su anno), 239 milioni gli abbonati (+14 rispetto al 2023), i ricavi sono aumentati di venti punti percentuali, siamo a 3,6 miliardi di euro.

 

 

 

L’app di streaming musicale più famosa al mondo, osannata per essere riuscita a invertire la tendenza dell’industria della musica, afflitta da decenni di declino, oggi costituisce la metà delle entrate del business totale delle major. Da qui parte la crepa, che si biforca da un lato in direzione Wall Street e verso gli ascoltatori dall’altro. «L’industria musicale soffre di una sbornia da streaming», ha titolato il Financial Times: Spotify cresce ma i nuovi utenti provengono da mercati, come quello indiano, dove si paga una frazione del prezzo di un abbonamento in Occidente. E infatti la Universal Music, a fine luglio, ha dovuto rivelare il rallentamento della crescita dei ricavi dello streaming: dopo l’annuncio le azioni sono crollate del 20%. Non solo: lo scorso ottobre, la Universal ha annunciato un programma di “risparmio sui costi”, licenziando centinaia di dipendenti. Idem la concorrente: nel marzo del 2023, Warner Music ha tagliato il 4% del personale e lo scorso febbraio ha dichiarato un altro 10% sarebbe rimasto a casa.

Per tenere buona Wall Street le case discografiche hanno annunciato un’offerta dedicata ai cosiddetti “superfan”: chi ascolta molta musica pagherebbe una cifra maggiore e avrebbe in cambio vantaggi come l’ascolto anticipato dei dischi in uscita. Il tutto per 18 dollari al mese, il 50% in più rispetto all’abbonamento attuale. Nessuno pare accorgersi che gli abbonati se ne vanno, stufi di essere ascoltatori passivi, figurarsi se vogliono pagare di più. «Perché finalmente ho lasciato Spotify», ha titolato il New Yorker: l’interfaccia della piattaforma rende ormai impossibile trovare la musica che si vuole ascoltare, non esistono gli album, solo playlist con suggerimenti generici, mix generati dall’algoritmo. Prendiamo un cantante a caso: bisogna scorrere i brani “Popolari”, poi la “Selezione dell’artista”, poi ancora le “Uscite popolari”, infine arriva “Vedi discografia” (il concetto di album sembra irrancidito come un cocktail di gamberi).

I GUADAGNI
Nella home page si trova solo ciò che abbiamo consultato di recente: per continuare ad ascoltare la stessa playlist o gli stessi album, bisogna scorrere oltre una sfilza di consigli o ripiegare sulla barra di ricerca e fare da sé. Insomma, all’algoritmo non gliene frega più niente della “mia” musica e di come la ascolto: mi somministra trap napoletano ed elimina gli album. «Piuttosto che ottimizzare l’esperienza dell’utente, ottimizza l’estrazione del profitto», conclude il New Yorker. E noi, che abbiamo ceduto all’offerta digitale (tutto-sempre-subito) e abbiamo rinunciato ai suoni rigonfi di armoniche delle casse in palissandro di cui sopra, ci ritroviamo le Las Ketchup nella playlist «Tuffo nelle estati passate». L’alternativa? Affrancarsi dal ciarpame imposto dall’algoritmo e tornare all’analogico: da mesi ascolto quello che viene suggerito da riviste, giornali, amici.

 

 

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