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Le stelle cadenti, fascino eterno in un mondo schiavo della tecnologia

Gianluigi Paragone
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Il fascino delle stelle cadenti in un mondo che ha paura del buio. Sulla spiaggia. Sui prati. Sui balconi e sulle terrazze. Ovunque si riuscisse a sollevare lo sguardo per perdersi in quel cielo dove il buon Dio ha mandato le stelle a pascolare con ordine preciso. In questa notte dove abbiamo confuso leggende e leggi astrofisiche ci siamo trovati a fare a cazzotti con l’istinto primordiale di vagabondi e l’abitudine a non restare sconnessi in questo micromondo che abbiamo ricreato per lasciarci mai soli. Ognuno con i propri desideri in tasca da liberare a ogni stella cadente.

Com’è attrattiva, fanciullesca e primordiale questa notte di san Lorenzo trascorsa ancora con il naso all’insù; genitori e figli, connessi per vincolo naturale, stretti da quella stessa forza che regge “il cielo stellato sopra di noi”; un po’ Kant ma anche un po’ Alan Sorrenti che gira negli AirPods tale e quale a come girava nei jukebox. Una stella, un desiderio. Da non poter svelare e Dio solo sa quanto ci costa tenercelo in gola in tempi dove tutto finisce sui social, pure quello che quando eravamo pischelli noi speravamo che i genitori non lo venissero a sapere. Ora però i pischelli sono diventati adulti anche quando fanciullescamente affidiamo i desideri al Cielo, a quel Divino che rispolveriamo come una specie di genio della lampada.

 

 

Quante stelle abbiamo visto disegnare una scia più o meno luminosa? Boh, forse nessuna o forse tutte quelle che quello spicchio di cielo compreso nel nostro campo di visuale ci buttava lì. Più eravamo circondati dal buio e più ne abbiamo potute contemplare. Se non fosse che nell’era delle luci sempre accese e dei neon attivi di supermercati aperti quasi tutto il giorno e di locali acchiappafolla, il buio è raro quanto la stella cadente. Abbiamo paura del buio tanto quanto abbiamo paura di restare soli, fuori dalla gens TikTok e Instagram, Facebook e YouTube.

Abbiamo paura del destino, delle malattie, del lavoro che manca, di figli inquieti, di bilanci che non tornano come pezzi di vita che inciampano nei tranelli del destino. Che fatica, l’inconscio. Affidiamo i nostri sogni e i nostri desideri a quel Cielo che non sappiamo più leggere nel suo “abc” di costellazioni, del Grande e del Piccolo Carro che non potevi non conoscere dopo un mese d’estate coi nonni. Già, peccato che nella modernità molti nonni si mettono la maschera plastificata dell’eterna giovinezza, intimoriti dal tempo che passa e che dovrebbe portare in dote saggezza.

Le costellazioni? Figurarsi se non c’è una app che ti dice tutto: basta alzare il telefono verso l’alto e il gioco è fatto. Così però l’incantesimo si rompe: il fascino di aspettare come pescatori di stelle diventa impazienza di svuotare le tasche dei desideri da dover esaurire più che esaudire. Abbiamo fretta. È così che abbiamo smarrito il nostro essere sempre un po’ pastori erranti pure in città che non si svuotano nemmeno più ad agosto. Tutto si mischia nel non luogo messo a fuoco da Marc Augé. Abbiamo fretta di sapere, di andare, di avere una risposta senza compiere il minimo sforzo.

Cerchiamo le stelle ma ci siamo persi l’identità; non dimestichiamo di bussole e punti cardinali perché schiavi, ieri di google map oggi dell’intelligenza artificiale a cui affideremo il gioco di scrivere, comporre, disegnare, stupire. In altre parole, essere. Abbiamo fretta di sbrigare anche questa notte di stelle cadenti e di sogni che inespressi finiranno in qualche audio di Whatsapp. Se già non sono finiti come post di Instagram, mentre il Divino ci guarda e si diverte a tirare dadi luminosi. Polvere di stelle nel tempo di caccia al like.

 

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