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L'università telematica? Ecco perché è una risorsa per il Paese

Marco Bassani
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Tutto ciò che lo Stato gestisce è tipicamente offerto in regime di monopolio. I meno giovani ricorderanno bene quando vi era una sola azienda telefonica, ovviamente pubblica, o quando tutta l’elettricità veniva fornita da un’azienda che si finanziava per mezzo della fiscalità generale. Ormai tutti, dagli economisti più esperti alle persone meno istruite sanno perfettamente che la concorrenza è invece sempre un bene: come minimo obbliga il vecchio monopolista ad adeguarsi ed offrire un servizio migliore. Queste cose semplici e chiare non vogliono assolutamente entrare nelle Aule Magne delle università italiane. In una sede prestigiosa come quella dell’università di Bologna, il rettore, Giovanni Molari, presentando il bilancio 2024 del suo ateneo ha voluto attaccare le università telematiche in un discorso tutto politico, che mescola interessi di bottega e livore ideologico. La tesi è che le università telematiche non siano «un bene per il Paese». Molari sostiene che una formazione universitaria in presenza sia sempre preferibile e che quindi le università on line debbano essere addirittura eliminate.

 


I sistemi di istruzione superiore, esattamente come treni, telefonia, elettricità, migliorano solo grazie alla concorrenza. L’insegnamento universitario è infatti qualcosa di molto articolato. Le modalità di erogazione sono certamente importanti, come lo è la qualità dei docenti (la quale viene certificata da apposite commissioni nazionali e vale per tutte le università, vuoi pubbliche, vuoi private), ma le lezioni in presenza e registrate presentano pregi e vantaggi. Ad esempio, le lezioni registrate sono molto più “costruite”, preparate e orientate alla didattica e meglio comprensibili delle lezioni in aula. In ogni caso, come minimo un eccellente professore di un’università on line offrirà lezioni di una qualità infinitamente più alta rispetto a quelle di un modesto professore di un’università in presenza. La qualità dei docenti dovrebbe essere la vera preoccupazione di chi ha a cuore il sistema universitario.

 

 

Vi è poi un dato che Molari sembra ignorare: al secondo anno di università solo il 30% degli studenti frequenta le lezioni in classe e la percentuale crolla al 10% negli anni successivi. L’ossessione di Molari per la frequenza dovrebbe quindi indurlo a imporre la frequenza obbligatoria nel suo ateneo come in tutti gli altri che si fregiano di un titolo “in presenza”, che ovviamente non corrisponde a verità. Quasi tutti gli atenei di fatto scoraggiano la presenza a lezione, giacché il sistema è costruito per far fronte ai numeri reali e non a quelli immaginari: vi sono aule enormi per i corsi obbligatori del primo anno, e stanzette da auditorium di periferia per gli anni successivi. Quello che il rettore di Bologna non vuole e non può ammettere è che le università tradizionali sono per lo più disertate dagli studenti, senza nemmeno che essi abbiano il sostegno (video, dispense, tutor) che ricevono invece gli studenti delle telematiche. Le università in presenza, nei fatti, sono “università in assenza”.

 

Vi è poi una considerazione sociale, che non può essere ignorata da chi governa. Se i cannoni di Bava Beccaris sparavano sulla folla che si lamentava per il rincaro del pane, qui si vuole penalizzare una fetta della società che non può permettersi di studiare senza lavorare e che non può affittare un appartamento in un’altra città.  In breve, se cinquanta anni or sono tutti i dati registravano il segreto di Pulcinella, ossia che l’istruzione pubblica fosse un modo per far sì che la classe operaia pagasse l’università ai figli della borghesia, oggi sta venendo fuori un conflitto di classe non dissimile. Le università in presenza, ossia quelle di chi ha le spalle garantite da genitori abbienti, vogliono distruggere la maggiore opportunità di riuscita sociale e di avanzamento di carriera che sia stata costruita nell’ultimo decennio in questo Paese. Le baronie statali della vecchia università difenderanno con le unghie e con i denti i loro privilegi: tutta l’area progressista che gravita attorno al Pd non vuole perdere il controllo sulle università. La sinistra accademica non vuole accettare le sfide del futuro, non vuole fare i conti con la concorrenza, non vuole misurarsi con le innovazioni tecnologiche, ama il suo universo di regolamenti barocchi, finanziamenti di Stato, minuetti pseudo-intellettuali che servono solo a legittimare la casta.

 

Con buona pace dei vecchi conservatori, il mondo sta cambiando, se il 19 percento dei laureati in Spagna proviene dalle telematiche e in Italia il 13% degli studenti studia nelle telematiche. Il sistema si integra senza togliere spazio alle università tradizionali. Va ricordato che anche con l’apporto, indispensabile, delle telematiche rimaniamo al penultimo posto per tasso di laureati nella fascia tra 25 e 34 anni, seguiti solo dalla Romania. Spiace davvero che il rettore della più antica Alma Mater del mondo abbia dato voce a chi nelle università vuole impedire che possano trovare spazio imprese che fanno tutto il possibile per offrire servizi di qualità agli studenti. E che aiutano l’Italia a non avere numeri da terzo mondo indifferenziato per quanto riguarda l’istruzione superiore. 

 

 

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