Coronavirus e Alzheimer, il professor Rossini: "L'effetto di questo biennio di pandemia"
Si stima che nel mondo il 50-60% delle persone affette da demenze sia malato di Alzheimer, in Italia il dato equivale a oltre 600mila persone, mentre oltre un milione sono quelle affette da varie forme di demenza. In occasione del 21 settembre, giornata mondiale dedicata all’Alzheimer, il dibattito dovrà tener conto ancora una volta del peso che ha avuto questo biennio di pandemia Covid-19 sull’assistenza, considerato che il Coronavirus ha colpito duramente soprattutto le fasce di popolazione considerate "fragili" e in particolare soggetti anziani con patologie plurime.
Infatti, come risulta dai diversi studi epidemiologici, inclusi quelli pubblicati dall’Oms, tra i pazienti che più hanno sofferto delle conseguenze della pandemia ci sono sicuramente quelli affetti da Alzheimer, come sottolinea il professor Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma, "l’elevata percentuale di malati colpiti dal Covid, perché ricoverati all’interno di Rsa o lungodegenze, l’interruzione e successivo rallentamento di tutti i trials clinici sui nuovi farmaci, così come l’isolamento sociale e sensoriale generato dal lockdown e il ritardo nelle diagnosi dovute alla chiusura dei Centri Specialistici dedicati sono solo alcuni degli esempi che hanno inciso di più sui dati epidemiologici".
In questo scenario desolante che si è andato a sovrapporre a quello già poco ottimistico di una malattia senza cure efficaci, si è però intravisto qualche spiraglio di luce. "È stato infatti approvato dalla Fda statunitense un primo farmaco in grado di interferire con la formazione ed il deposito della beta-amiloide, l’Aducanumab, che, con tutti i limiti già sollevati da più parti sulla reale efficacia, sui costi e sugli effetti collaterali, rappresenta pur sempre il primo gradino, di una scala sicuramente lunga e irta di ostacoli, verso una soluzione terapeutica", continua il professor Rossini. Questo dato porta però con sé un secondo aspetto più culturale e organizzativo: l’urgente necessità di dotarsi di uno o più strumenti diagnostici in grado di intercettare le fasi più precoci della malattia, "fasi in cui una terapia di qualsiasi tipo potrebbe dare la risposta migliore e soprattutto andrebbe ad interrompere il processo neurodegenerativo in un momento in cui la riserva neuronale di circuiti e collegamenti nervosi a disposizione non risulta essere del tutto esaurita”. In quest’ottica si orientano due progetti scientifici di grande valore e che vedono l’Italia all’avanguardia, quali Interceptor, finanziato dall’Aifa e dal Ministero della Salute, che vede il professor Rossini come responsabile nazionale e AI-Mind, un progetto di ricerca europeo condotto da un consorzio internazionale che coinvolge l’IRCCS San Raffaele Roma e l’equipe del professore. "L’utilizzo di biomarcatori integrati e dell’intelligenza artificiale, in grado di estrarre da una valanga enorme di dati l’'impronta precoce' di una malattia in evoluzione, permetterà in un futuro ormai prossimo di identificare le persone ad alto rischio e di mettere in atto da subito tutte le procedure di contrasto farmacologico e non farmacologico contro questa terribile malattia. Dobbiamo tutti entrare nell’ottica che già oggi riuscire a prolungare di alcuni anni la piena o parziale autonomia nelle principali attività del vivere quotidiano, in pazienti molto anziani, rappresenterebbe un traguardo d’ineguagliabile importanza per tutti, dai malati di Alzheimer ai loro famigliari così come i care-givers, e la società stessa", conclude Rossini, "abbiamo imboccato finalmente la strada giusta anche se questa è ancora lunga per vederne pienamente i frutti".