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Covid, il professor Corrado a Senaldi: "La formula che stabilisce a chi tocca vaccinarsi per prima"

Pietro Senaldi
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Il 27 gennaio è partita la campagna di vaccinazione nazionale contro il Covid-19. Al momento coinvolge poche migliaia di italiani, tutti lavoratori del sistema sanitario e sociosanitario. Lo scopo è evitare che il contagio si propaghi negli ospedali, infettando le fasce più deboli della popolazione, e garantire la tenuta del sistema sanitario, che spesso in questi mesi si è trovato in sofferenza quando medici e infermieri sono stati colpiti dal virus. Il passo successivo è la vaccinazione per gli ospiti delle residenze per anziani e i dipendenti delle stesse, che sono state il teatro principale della strage, soprattutto nel corso della prima ondata dell'epidemia. Il vaccino non è obbligatorio, ma è fortemente raccomandato per il personale sanitario, anche se almeno il 20% di esso è restio ad assumerlo. In questa prima fase saranno le Regioni, alle quali lo Stato distribuirà le dosi a seconda della popolazione sanitaria, a contattare chi ha diritto al siero. L'obiettivo della profilassi è il raggiungimento dell'immunità di gregge, che si ottiene quando circa il 90% della popolazione è entrato in contatto con il virus, la cui circolazione viene così naturalmente limitata, fino alla sua progressiva eliminazione. Le vaccinazioni di ieri sono solo il primo passo di un processo che durerà probabilmente tutto l'anno prossimo. Il governo ha in programma di vaccinare per Pasqua dieci milioni di italiani, quindi proseguire per arrivare ad avere metà della popolazione immunizzata per l'estate. Una volta distribuito il siero in ospedali e residenze per anziani, e fatta salva l'indicazione di ulteriori categorie a rischio, come le forze dell'ordine o il personale scolastico, diventa fondamentale stilare una graduatoria che indichi le precedenze tra la popolazione nel diritto alla somministrazione, per evitare una corsa selvaggia alla profilassi e la violazione del diritto alla salute delle persone più fragili. Per dirla grossolanamente, ciascuno di noi avrà un numeretto che indicherà il nostro diritto di precedenza nell'accesso al vaccino anti-Covid. Esso ci sarà assegnato fondamentalmente in base al nostro grado di fragilità rispetto alla malattia e alla nostra possibilità di contrarla. Uno degli elementi massimi di fragilità è l'età avanzata, ma essa non sarà l'unico criterio in base al quale verrà stilata la classifica, e spesso non sarà neppure quello principale. A proporre un metodo in grado di decidere della nostra sorte saranno un uomo e il suo staff, Giovanni Corrao, professore di Statistica Medica presso l'Università Bicocca di Milano. «Il mio lavoro consiste nell'analisi dei dati e delle evidenze del mondo reale» spiega lo scienziato, contattato da Libero. «Osserviamo quello che ci è successo, come sono stati curati i pazienti, l'efficacia dei farmaci utilizzati, le terapie e cerchiamo di imparare dal nostro recente passato, evidenziando gli errori che sono stati fatti per evitare di ripeterli».

Corrao ha incontrato la scorsa settimana il governo e i vertici delle Regioni, ottenendo il via libera per la realizzazione del grande algoritmo anti-Covid, la formula statistica e matematica che determinerà la graduatoria d'accesso alla profilassi, analizzando e comparando la cartella sanitaria di tutti gli italiani. Il procedimento nasce da un'intuizione del professore, che ha presentato una proposta di protocollo operativo al ministero della Salute, con il quale sono stati discussi anche i dettagli metodologici, coinvolgendo anche esperti delle Regioni, che forniranno i dati terapeutici e diagnostici indispensabili allo studio.

Professor Corrao, è un lavoro immenso: quanto pensa di impiegarci?
«Iniziamo già questa settimana e confido di terminare il lavoro in una quindicina di giorni».
Chi ci lavora?
«Tre anni fa, qui all'Università Milano Bicocca, io e un gruppo di giovani ricercatori abbiamo messo in piedi un centro inter-universitario che coinvolge 25 atenei nel Paese, l'Healthcare Research and Pharmacoepidemiology, un gruppo multidisciplinare di statistici medici, epidemiologi, data scientist e clinici italiani».
Quali dati userete?
«I dati sono quelli che ciascun servizio regionale raccoglie per rimborsare le prestazioni sanitarie erogate. Mettendo insieme il servizio offerto e il codice identificativo del paziente riusciamo a ricostruire l'intera storia sanitaria di ciascun individuo: sappiamo che malattie ha avuto e il suo coefficiente di rischio rispetto a un'eventuale infezione da Covid».
Non subentra un problema di privacy?
«No, perché chi analizza i dati sanitari non conosce la chiave identificativa della persona».
Qual è la base di partenza per il suo calcolo?
«L'algoritmo che determina la classifica si basa sull'identificazione del profilo clinico di tutti i pazienti che negli ultimi dieci mesi hanno sviluppato forme severe di Covid, che li hanno costretti al ricovero in terapia intensiva o ne hanno provocato perfino la morte. Noi determiniamo il peso che ogni fattore di fragilità, dall'età alle patologie pregresse, ha avuto nel determinare l'aggravamento della funzionalità respiratoria o addirittura il decesso».
Attribuite un peso anche ai farmaci usati per curare?
«I medicinali che l'individuo utilizzava abitualmente prima di contrarre il Covid fanno parte a tutti gli effetti della storia clinica dell'individuo e hanno il giusto peso nell'algoritmo».
Entriamo nel cuore dello studio: come utilizzerà i dati sanitari degli italiani per stilare la classifica?
«È la classica applicazione del concetto di medicina personalizzata. L'algoritmo che assegnerà a ciascuno di noi un punteggio che indicherà il grado di precedenza nell'accesso alla profilassi si basa su un mix di pesi e correlazioni tra stile di vita, situazione sanitaria generale, età, patologie croniche. Ci sono una quarantina di voci, a ciascuna delle quali sarà associato un valore a seconda dell'individuo analizzato, che ci consentiranno di tracciare un quadro clinico esaustivo dal quale risulterà il rischio soggettivo di decesso in caso di contrazione del Covid».
Come decidete quale valore attribuire alle diverse patologie che concorrono a determinare il decesso per Covid?
«Confrontiamo la storia clinica degli individui morti o ricoverati in terapia intensiva a causa dell'infezione da coronavirus con quella di individui che non hanno contratto l'infezione. Dalla differenza tra le storie cliniche ricaviamo il coefficiente di rischio di ogni singolo caso».
Quali sono gli ingredienti del cocktail alla base dell'algoritmo e come saranno mischiati?
«Gli elementi sono vari, dall'aritmia al pregresso infarto, dalla leucemia linfatica al diabete, dall'obesità all'ipertensione. A seconda della condizione clinica del paziente ognuna di esse avrà un punteggio, diciamo da zero a dieci».
L'età avanzata che ruolo avrà?
«L'età è un fattore di fragilità in sé. Per di più, i cittadini più anziani sono con buona probabilità più malati dei giovani perché molte patologie si manifestano proprio con l'avanzare degli anni. Ma, paragonando la situazione clinica di due individui, potrebbe benissimo capitare che un trentenne risulti, in base all'algoritmo, più fragile di un ottantenne. Non accadrà di frequente, però succederà».
Com' è possibile?
«Prendiamo il caso di un diabetico di tipo 2, patologia alla quale spesso è correlata l'obesità, la quale porta con sé necessariamente difficoltà respiratorie. Oppure pensiamo a malattie autoimmuni non correlabili con l'età, come per esempio il diabete di tipo 1, molte malattie reumatologiche o la sclerosi multipla. I cittadini affetti da queste malattie, se colpiti dal Covid, hanno un rischio di morte che può essere addirittura superiore a quello di un'ottantenne in buone condizioni e che magari svolge attività fisica».
Da quanti anni l'età comincia a diventare un peso importante nel rischio di decesso per Covid?
«Non c'è un'età spartiacque, è una linea continua di rischio crescente. Noi iniziamo a degenerare dal momento in cui nasciamo. Sarebbe come dire da quando il fumo fa male: dalla prima sigaretta...».
Professore, il lavoro inizia questa settimana: come?
«Lavoreremo tre giorni in Regione Lombardia, la regione pilota. Partiamo da qui perché ci sono i maggiori dati statistici sul Covid ma ho avuto carta bianca dal ministero, basta una firma del presidente della Regione che mette a disposizione le banche dati e si può iniziare dappertutto».
Cosa potrebbe capitare, da qui a quattro-cinque settimane, a un cittadino lombardo?
«Noi proponiamo che quando avremo attribuito a ogni lombardo un punteggio, il governatore Fontana, in base alla quantità di vaccini che gli sarà stata messa a disposizione dallo Stato, scriverà a quelli in condizioni di maggiore fragilità offrendo loro di vaccinarsi; un po' come accade oggi per gli ultrasessantenni che vengono invitati a sottoporsi allo screening per la diagnosi precoce del tumore al colon».
Ha un'idea dei risultati che potrà ottenere?
«Sì. Sappiamo che il virus ha un tropismo alto verso le patologie cardiovascolari, legato ai danni che esse producono all'organismo più che ai farmaci utilizzati per curarle. Stesso discorso per l'ipertensione, perché dopo tanti anni di alta pressione può generarsi un danno alla funzionalità cardiovascolare. Questi soggetti sono molto a rischio anche se in età relativamente giovane».
Anche il tumore è un fattore di forte aggravamento del rischio?
«Sì, perché il tumore è una malattia degenerativa che determina un indebolimento generale dell'organismo e perché i farmaci per curarla sono spesso immuno-soppressivi».
È giusto partire dal personale sanitario e, forse, anche dalle forze dell'ordine?
«Non sono un uomo d'apparato. Certe decisioni non mi competono. Se si considera però che il vaccino, oltre a proteggere sé stessi, serve anche per tutelare gli altri, mi pare logico che si inizi dalle categorie più a contatto con i cittadini fragili».
Perché molte persone sono restie a vaccinarsi?
«Si è diffusa una paura immotivata. Le vaccinazioni sono una delle più importanti invenzioni dell'umanità e non possono essere messe in discussione da una mente sana».
Ma la vaccinazione può comportare controindicazioni...
«Come qualsiasi sostanza che si introduce nell'organismo e che il corpo non conosce, anche il vaccino comporta il rischio minimo di una cattiva reazione. Siccome sarà somministrato a centinaia di milioni di persone, è immaginabile che ci saranno rarissimi casi di effetti avversi. Ma questo succede anche con i farmaci che utilizziamo tutti i giorni; solo che, a differenza degli altri medicinali, il vaccino non aiuta solo noi ma anche chi ci sta vicino».
Professore, lei è uno statistico medico: perché se l'indice del contagio è sotto quota 1 siamo ancora in pericolo anziché andare verso il progressivo spegnimento dell'epidemia?
«Penso perché il valore dell'Rt è sottostimato. Il coronavirus agisce in modo subdolo, spesso non generando alcun sintomo in chi ne è colpito. L'indice Rt tuttavia è calcolato sui soli pazienti sintomatici. Si pensi ad esempio che su cento casi accertati in Lombardia, 80 sono stati identificati perché manifestavano i classici sintomi della malattia. Identificare gli asintomatici non è facile e questo fa sì che non possiamo avere una corretta percezione del reale indice di contagio».

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