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Ora anche il Pd si fa tentare dal voto

Il dilemma di Bersani e una frase sibillina: "Questa fase non è il nostro orizzonte, che è invece l'appuntamento elettorale"

Andrea Tempestini
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Il travaglio del Partito democratico è tutto in quella frase che Pierluigi Bersani pronuncia non nell'Aula di Montecitorio, ma fuori. Prima del voto finale alla manovra economica. Il Partito democratico, dice il segretario in una conferenza stampa con il candidato socialista Francoise Hollande, sostiene il governo Monti. In modo «coerente e fermo». Ma sia chiaro che «questa fase non è il nostro orizzonte, che è invece l'appuntamento elettorale». Solo allora, infatti, sarà possibile «una ricostruzione democratica e sociale del Paese». Nello staff del segretario si precisa che intendeva riferirsi al 2013, non certo alludere al voto anticipato: «Noi non siamo Berlusconi». E nella dichiarazione di voto finale, lo stesso Bersani corregge il tiro: la «lealtà» del Pd è assoluta, il sostegno al governo Monti sarà «senza limiti temporali». Resta il fatto che il riferimento alle elezioni, anche senza “pensar male”, è significativo. Così come quando in Aula, nel voto finale, Bersani invita il governo a non fermarsi all'austerità. Perché se no, dice, serviranno altre manovre e poi altre. E a quel punto, la tentazione del voto sarà forte, soprattutto con un Pd che viaggia verso il 30%: «Se non si vedranno i cambiamenti, se saranno solo sacrifici», rifletteva nel pomeriggio un deputato toscano vicino al segretario, «allora meglio andare alle elezioni». Bersani non lo dice. Ma il ragionamento di tanti è questo. Ieri è riuscito a tenere unito il Pd, compresi i malpancisti filo-Cgil. Cesare Damiano, «per disciplina di partito e senso di responsabilità», come spiega a Libero, ha votato a favore. Anche se considera la manovra «insufficiente» e il costo su lavoratori e pensionati «troppo alto». Lo stesso ha fatto Antonio Boccuzzi, anche se definisce la manovra «indigeribile» («il mio», dice a Libero, «è un voto di fiducia al segretario»). Ma fino a quando reggerà? Il passaggio più difficile sarà a gennaio, quando arriverà la riforma del mercato del lavoro. Che conterrà una nuova disciplina sui licenziamenti. Bersani lo sa. Per questo, in Aula, manda un avvertimento molto chiaro a Monti: «Il problema non è buttare fuori dal lavoro ma  andare dentro il lavoro». E insiste sulla riforma degli ammortizzatori. Ma tra i fedelissimi del segretario in molti mettono in conto il voto nel 2012. «Sarebbe insostenibile una modifica dell'articolo 18, a quel punto meglio staccare la spina».   Al Nazareno giurano che Bersani non la pensa così. Il riferimento al  voto, dicono, serve a mandare un segnale proprio ai “malpancisti”, a rassicurarli sul fatto che sì, ora si sostiene il governo del professore, ma poi arriveremo noi a Palazzo Chigi e cambierà la musica. Il veltroniano Stefano Ceccanti osserva che «nessuno può permettersi di staccare la spina: chi lo facesse, pagherebbe un prezzo altissimo nel Paese». Oltre a farlo pagare all'Italia. «Io questa manovra non la devo votare, ma la voglio votare perché fa l'interesse del Paese», puntualizza Walter Verini. A sfavore del voto anticipato c'è poi un nodo irrisolto: le alleanze. Come dice Marco Follini, «il voto del Pd a favore e dell'Idv contro, toglie di mezzo l'ultimo bullone del palco di Vasto». Un altro bullone lo aveva tolto Nichi Vendola, sostenendo che, se fosse stato in Parlamento, avrebbe votato no. La strada del voto è complicata. Ma la tentazione resta. di Elisa Calessi

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