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Bossi attacca il Cav: è l'unica strategia possibile

Umberto vuole il Nord ma deve azzerare i contrasti interni e infierire sul pdl. Per lui anche l'uscita di scena di Tremonti può essere un vantaggio

Lucia Esposito
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È una delle rarissime volte in cui Silvio Berlusconi non è riuscito a convincere Umberto Bossi: la Lega non appoggia il governo Monti, nonostante il professore avesse offerto a Maroni la permanenza al Viminale. Checché se ne dica, la scelta del Senatur si sta rivelando la più azzeccata degli ultimi tempi. Non lo confermano solo i sondaggi, che testimoniano la fine dell'emorragia di consensi che colpiva i lumbard. Fuori dai giochi, Umberto ha tutto il tempo per sistemare il partito scosso da profonde fratture interne; cavalcare il malcontento contro l'esecutivo; osservare la ricomposizione del quadro politico. La più che probabile fine del berlusconismo rischia di aprire praterie elettorali impensabili, tanto che alcuni colonnelli sognano «l'egemonia del Nord», il vecchio pallino del Senatur che adesso punta a conquistare il Pirellone di Roberto Formigoni. Alle prossime amministrative la conferma dell'alleanza col Pdl sembra scontata, ma nel medio termine non ci sono certezze. Sembra incredibile, perché i risultati ottenuti in anni di governo a Roma non sono così scintillanti da far immaginare valanghe di suffragi. E infatti Bossi dovrà capire come contrastare Monti senza passare per quello che ha fallito la missione e ora alza i toni. Non a caso è il tema toccato da Pier Ferdinando Casini, che ieri ha bacchettato Umberto: «Non può solo gridare». Per conquistare l'egemonia nel Nord è necessario avviare un serio programma di rilancio, che passa anche dal buon governo del piemontese Roberto Cota e del veneto Luca Zaia. Possono rappresentare “la vetrina della Lega”: Bossi usò questa espressione per la Milano del suo Marco Formentini. Erano gli anni Novanta. Gli disse male, perché il primo sindaco padano sotto la Madonnina durò solo un mandato. Ma le nuove leve del movimento possono scrivere finali diversi. Cota e Zaia, con l'esecutivo Berlusconi, hanno giocato in difesa. Lasciando spazio a Formigoni che cerca di accreditarsi come l'alfiere della questione settentrionale. Bossi non lo ammetterà mai, ma anche l'uscita di scena di Giulio Tremonti può essere un vantaggio. Negli anni di governo il titolare di via XX Settembre è stato un dogma per i leghisti. Per il Senatur e Calderoli non si doveva discutere. Anche se non ha allentato i vincoli del patto di stabilità per i comuni virtuosi. Né ha rovesciato secchiate di quattrini nella macchina del federalismo fiscale. Maroni ricorda che agli inizi della Lega, proprio Bossi aveva indicato la strada da seguire. Un autonomismo spinto, ma non come i paesi Baschi che ne fanno anche una questione etnica e linguistica. Si tratta di un progetto capace di unire tutto il Nord perché fa leva su motivi economici e sociali. Argomenti che rischiano di diventare ancora più attuali in un periodo di crisi. E calza a pennello con la nuova prospettiva del Carroccio, che ormai pensa di arroccarsi sopra il Po. Mettendo in conto la moltiplicazione dei litigi con gli azzurri. Certo, è uno scenario ricco di incognite. Il primo passo da compiere è regolare le divisioni interne. Se si litiga si perde. L'ha dimostrato, alle ultime Amministrative, anche una roccaforte come Novara. Maroni vuole rompere gli indugi occupandosi direttamente delle faccende di partito. Ormai è difficile immaginare una tregua, anche armata. Bobo e il clan di Gemonio devono misurarsi e decidere chi comanda davvero. Diversamente, lo straordinario colpo di fortuna rappresentato dall'addio del Cav e dall'arrivo di Monti rischia di non essere sfruttato. Per la Lega, sarebbe l'ennesima occasione sprecata. di Matteo Pandini

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