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Opposizione furbetta: Aventino part time

L'accordo sulla strategia da tenere per il voto di fiducia: quando parla Silvio fuori dall'Aula, tutti presenti per il voto di domani

Lucia Esposito
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Mi si nota di più se vado o se non vado? Nel dubbio, la prima ma anche la seconda. A fine giornata, le opposizioni trovano l'accordo sulla strategia unitaria da tenere in occasione del voto di fiducia al governo: l'Aventino part time. Oggi, quando parla Berlusconi, tutti fuori dall'Aula in segno di protesta. Domani, quando c'è da votare, tutti dentro a schiacciare il bottone. Le posizioni di partenza sembravano inconciliabili. Da una parte Pd, Idv e Fli schierati sulla linea dura: disertare tutti i lavori parlamentari, commissioni incluse, intimando al governo di dimettersi. A Umberto Bossi non pareva vero: «Così risolvono tutti i nostri problemi», gongolava. Udc e Api, invece, erano per combattere la battaglia dai seggi. Dopo un incontro-fiume, il compromesso. Che nasconde fino ad un certo punto le divisioni che restano a covare sotto la cenere. Perché, una volta che il governo avrà incassato la fiducia, le truppe dell'opposizione si torneranno a dividere: Pd e Idv promettono ostruzionismo duro in tutte le sedi, ma l'approccio barricadero è già stato rifiutato dal terzo polo (con la benedizione del Colle, raccontano). Colle il cui atteggiamento, a sinistra, non ha mancato di suscitare qualche malumore. Si sperava (ed era l'auspicio affidato a Gianfranco Fini nella sua veste di portavoce delle opposizioni) che Napolitano trovasse il modo per impedire a Berlusconi di cavarsela con un voto di fiducia. E invece nisba. Palpabile la delusione dell'Idv (che continua a chiedere al Quirinale di licenziare il Cav) e di rilevanti spezzoni del Pd. Cui dà voce la dalemiana Velina rossa, che invoca un messaggio alle Camere del capo dello Stato. Quello che è certo, è che da ora gli spazi per un governo di larghe intese appaiono drasticamente compressi: «Si va a votare in primavera», profetizzava ieri Sibilla D'Alema. In casa Pd, poi, le cose sono ancora più complicate, perché lo scontro interno al partito prosegue senza esclusione di colpi. E la frattura generazionale tra apparato e nuove leve si fa sempre più insanabile. Per rendersene conto basta vedere i toni che il responsabile Lavoro del Nazareno, Stefano Fassina, riserva a Matteo Renzi: «Più che un big bang», attacca il bersaniano riferendosi alla imminente kermesse del sindaco di Firenze, «si preannuncia un big bluff. Che noia, ragazzi. Renzi riscalda la solita minestra». E poi ancora: «Ricette ideologiche vecchie di 20 anni e clamorosamente fallite», «giovanilismo a volontà», «mix oggi di moda sui grandi media moderati». Un attacco tanto duro da guadagnarsi la rampogna del collega Marco Meloni, responsabile università: «Manteniamo i nervi saldi, moderiamo giudizi e toni». Ma i guai con le nuove leve non finiscono qui. Perché oltre a Renzi, incombono Pippo Civati e Debora Serracchiani (anche loro in quota giovani, ma di diversa corrente). Costoro, organizzatori a breve di un evento pubblico a Bologna, annunciano di essere pronti a «lanciare un'opa sul partito». Il quale, comprensibilmente, di farsi scalare non ha nessuna voglia. Come testimoniano le manovre in corso per aggirare il divieto, previsto dallo statuto, di ricandidare chi abbia svolto più di tre mandati. La norma, ove applicata, farebbe una carneficina del gruppo dirigente democrat (si stimano circa 90 nomi tra grossi e grossissimi che sarebbero cassati dalle liste): e allora si impone il colpo di reni. Più precisamente, si cercherà di dare interpretazione il più estensiva possibile ad un comma della medesima norma che dispone la possibilità di derogare al divieto. Fatta la legge, trovato l'inganno. di Marco Gorra

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