"La coop mi disse: assumi quei due"
Nelle carte di Monza l'imprenditore Pasini ricostruisce il ruolo dei professionisti legati alla Ccc di Bologna / SCAGLIA
È chiaro che quest'inchiesta della Procura di Monza su un decennio di mazzette a Sesto San Giovanni si articola su tre livelli. Lo si evince anche dagli atti depositati dal pm Walter Mapelli in seguito alla richiesta di Riesame avanzata da alcuni degli indagati. E dunque, c'è il piano più specificamente locale, con i funzionari municipali e l'assessore con delega all'edilizia e il sindaco sotto indagine, per via di progetti cittadini che - stando all'accusa - avrebbero nascosto rendite di posizione e contributi illeciti ai politici stessi. Poi c'è la vicenda che più direttamente coinvolge Filippo Penati, esponente di punta del Pd lombardo ora dimissionario da ruoli istituzionali, accusato da due imprenditori - Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina - d'aver intascato mazzette, mai direttamente ma per esempio tramite Giordano Vimercati, già suo capo di gabinetto quando lo stesso Penati era presidente della Provincia di Milano - e c'è però da rimarcare che quest'ultimo rigetta ogni accusa. Infine ecco l'ultimo piano, il più misterioso: quello che coinvolge le cosiddette coop rosse emiliane, con due professionisti d'area indagati per aver intascato emolumenti che, a dire dei pm, non sarebbero giustificati. Dicevamo degli atti. Da cui ancora emergono le accuse di Piero Di Caterina, l'imprenditore per anni vicino a Penati e ora suo grande accusatore. Colui che afferma d'aver versato «20-30 milioni di lire al mese» a partire da metà anni Novanta, e che contestualmente, con la sua azienda di trasporti Caronte, ha goduto di remunerative concessioni pubbliche. Ai giudici ha confermato che «io avevo vantaggi, mi hanno consentito operazioni lucrose». Ragion per cui lui anticipava i soldi a Penati e al suo giro, «sicuro che le somme mi sarebbero state restituite, in quanto era scontato che Pasini avrebbe pagato una tangente». Poi invece Di Caterina - sempre stando alla sua versione - ha cominciato a innervosirsi. Fino a indirizzare una lettera allo stesso Penati e a Bruno Binasco, stretto collaboratore dello scomparso Marcellino Gavio, titolare del grande gruppo tra l'altro possessore delle quote dell'autostrada Milano Serravalle acquistate proprio dalla Provincia guidata da Penati con una chiacchierata operazione. Senza contare che Binasco è l'imprenditore che, nel '93, fu arrestato con l'accusa di aver finanziato Primo Greganti, il “compagno G”, con 150 milioni (di lire) truccate da caparra su un'operazione immobiliare poi non avvenuta. E comunque, Di Caterina aveva scritto a Penati e Binasco lamentandosi d'aver versato negli anni «notevoli somme» mai più rientrate. Ed ecco che lo schema si ripete, nel senso che Di Caterina sostiene d'essere stato pagato con il sistema del '93: nel 2008 Binasco sottoscrive un contratto per l'acquisto di un immobile di Di Caterina, versando una caparra di due milioni di euro per ottenerne l'opzione, che però scade senza che la cosa si concretizzi, cosicché il denaro resta a Di Caterina. Negli interrogatori resi ai pm di Milano l'anno scorso - prima che il fascicolo passasse a Monza - l'imprenditore ha verbalizzato una sorta di contabilità delle tangenti che avrebbe versato a Penati - o meglio, a chi per lui. Dalla fine del '97 al 2003 ammonterebbero a 2 miliardi e 235 milioni di lire, con i diversi importi segnati su buste consegnate agli stessi inquirenti. I pagamenti fino al '97, dice Di Caterina, non sono annotati «perché mi sono stati restituiti da Pasini e da suo figlio Luca» su un conto lussemburghese: «euro 1.104.683» poi rientrati in Italia nel 2003 con lo scudo fiscale. E per quanto riguarda il denaro versato dal '97 al 2003, ecco la storia della caparra versata da Binasco. Peraltro, i pm ritengono di poter dimostrare come parte dei soldi sia stata utilizzata anche per finanziare attività politiche le più quotidiane - tipo le bollette delle sedi della Federazione Metropolitana Milanese dei Ds, di cui Penati è stato segretario dal 2001 al 2004. Infine, le cooperative emiliane. In particolare i due professionisti indagati, l'avvocato siciliano Francesco Agnello e Gianpaolo Salami, socio di diverse imprese a Sassuolo. Entrambi impegnati anche in altri progetti legati alle coop. È stato Giuseppe Pasini a tirarli in ballo, «mi hanno detto di dare a loro le consulenze», indicando come suggeritori i rappresentanti della Ccc-Consorzio Cooperative Costruzioni, grande coop bolognese del settore edile. C'è da dire che i due indagati - respingendo con decisione ogni addebito - hanno presentato le fatture emesse da Pasini per prestazioni fra il 2002 e il 2004, fatture che però non convincono gli inquirenti. Che, per approfondire, hanno anche sentito Achille Colombo, nel 2000 - ai tempi delle trattative per la dismissione dell'area dismessa - dirigente di primissimo piano del gruppo Falck. Il quale Colombo ha ricordato come anche durante le trattative di allora fosse presente Agnello. D'altronde, sempre dal 2000 a oggi, la vicenda dell'ex Falck ha visto cambiare attori e protagonisti e proprietari. Soltanto le coop sono rimaste sempre nell'affare: attualmente la Ccc fa parte della società, guidata da Davide Rizzi, proprietaria dell'area. di Andrea Scaglia