Un fantasma, un feticcio, un’ossessione. Piazzale Loreto incubo di certa sinistra, che non riesce né a metabolizzare né a storicizzare la pagina scritta col sangue il 29 aprile 1945: una volta monito, un’altra esempio, un’altra ancora spettro di inesistenti corsi e ricorsi. Atto di vendetta comprensibile ma inescusabile, come ogni scempio sul quale ebbero parole nette persino i grandi protagonisti della Resistenza.
Eppure il fascino perverso dell’immagine con i cadaveri penzoloni di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti continua a esercitare un’attrazione morbosa sugli ur-partigiani del presente che proprio non riescono a svincolarsi dall’ur-fascismo teorizzato da Umberto Eco, mostro perenne che come un’idra polimorfa si rigenera continuamente, e altrettanto continuamente ha bisogno di un epilogo catartico evocato e auspicato fuori dal tempo e fuori dalla ragione.
È una moda e un’abitudine macabra raffigurare le sagome o le fotografie dei politici di centrodestra appesi a testa in giù, proprio per proiettare la scena della pensilina milanese del 1945, preceduta da ogni sorta di feroce oltraggio ai cadaveri. Ciò che accadde sconfina nel granguignol, catalizzatore di una rabbia repressa, di lutti, di privazioni e di esasperazione, ma che squalificò anche il primato morale e civile della Resistenza. La storia è fatta di simboli e di moniti, e si perpetua all’oggi, quando quelle immagini in bianco e nero non hanno più neppure la cornice urbanistica, perché mentre Milano è cambiata ed è andata avanti il nostalgismo guarda continuamente indietro.
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Quello di Piazzale Loreto con i gerarchi del fascismo fu il secondo atto di una vicenda scritta col sangue. La mattina dell’8 agosto 1944 in viale Abruzzi era saltato in aria un camion con rimorchio dell’esercito tedesco, e l’autista incredibilmente aveva riportato una scalfittura alla guancia. Tutt’attorno, però, si contavano sei morti e undici feriti. Tutti civili, eppure i nazifascisti furono lesti ad attribuire ogni responsabilità dell’accaduto, che peraltro era stato quasi sicuramente un evento accidentale, a un attentato di un Gruppo di azione patriottica (smentito dal comandante Giovanni Pesce) da punire con una rappresaglia esemplare, anche se non c’erano vittime tra i soldati della Wehrmacht e quindi non poteva essere applicato il parametro fissato da un bando militare del Maresciallo Albert Kesselring di dieci italiani per un tedesco. Il capitano delle SS Theodor Saevecke, comandante del Sicherheitsdienst di Milano (AK Mailand), aveva scritto di persona una lista di 15 prigionieri politici da prelevare dal carcere e fucilare, pretendendo che il plotone d’esecuzione fosse formato da militi della Legione autonoma “Ettore Muti”.
IL GRUPPO OBERDAN
Il 10 agosto alle 6.15 il Gruppo Oberdan comandato dal capitano Pasquale Cardella uccideva con una scarica i 15 condannati a morte. I cadaveri vennero di proposito lasciati nel sangue e sotto il sole a piazzale Loreto; i militi della “Muti” impedirono durante il giorno che qualcuno potesse avvicinarsi a quei corpi su cui si addensavano le mosche. Solo in serata, per intercessione delle autorità religiose, si acconsentì alla rimozione e alla sepoltura.
Se lo scopo di quella macabra esposizione era di spaventare i milanesi, gli autori fallirono, perché quel disgustoso spettacolo accentuò la rabbia e accese la miccia della vendetta. Il prefetto di Milano Piero Parini aveva scritto a Mussolini che tutto ciò che era accaduto era bestiale: «L’impressione in città perdura fortissima e l’ostilità verso i tedeschi è molto aumentata. Vi sono stati anche scioperi parziali in alcuni stabilimenti e corre voce che se ne prepari uno domani... Non Vi nascondo che mi sento profondamente a disagio nella mia carica, giacché il modo di procedere dei tedeschi è tale da rendere troppo difficile il compito di ogni autorità e determina una crescente avversione da parte della popolazione verso la Repubblica». Mussolini aveva protestato con il diplomatico Rudolf Rahn, e secondo alcuni avrebbe addirittura preconizzato che quel sangue sarebbe stato pagato con altro sangue, senza poter immaginare che potesse essere il suo e quello dei suoi camerati.
IL BOIA
Il principale responsabile, Saevecke, nel dopoguerra presterà servizio nella Cia e poi entrerà nella polizia federale tedesca, arrivando all’alto ruolo di vice direttore dei Servizi di sicurezza del Ministero degli interni. Il fascicolo che lo riguardava era stato archiviato nel 1963, dopo palesi insabbiamenti, ma comunque il 9 giugno 1999 il Tribunale militare di Torino lo condannerà all’ergastolo, senza però che il governo tedesco ne conceda l’estradizione. Il boia di piazzale Loreto, ultranovantenne, morirà da pensionato ad Amburgo nel dicembre 2004.
Quello che aveva fatto con la complicità dei fascisti italiani era riemerso prepotentemente il 29 aprile 1945, quando da un camion vennero scaricati i cadaveri di Mussolini giustiziato a Giulino di Mezzegra assieme all’incolpevole Claretta Petacci e altri 15 fucilati a Dongo. Assai probabilmente l’esposizione a terra doveva dimostrare a una folla incontenibile che davvero era finito tutto nella stessa città dove tutto era cominciato, ma poi la situazione divenne ingestibile con i soli idranti dei vigili del fuoco. Molti volevano solo vedere, altri non si accontentarono di vedere: calci, sputi, colpi di pistola, qualcuno orinò, altri ancora si portarono via “cimeli”.
La decisione di issare quei cadaveri insanguinati e deformati dalle percosse venne presa per risparmiare ulteriori manifestazioni di orrore e di vilipendio e far vedere alla folla che si chiudeva un’epoca. La giustizia partigiana doveva essere esemplare e divenne altro, degenerando in uno spettacolo osceno che oggi alle frange più esagitate della sinistra suscita ancora un brivido di compiacimento, considerata la disinvoltura con la quale in effige augurano agli avversari politici o a tutti coloro di cui non condividono le idee (come con Elon Musk) di essere appesi a testa in giù. E poi inneggiano alla democrazia e alla Costituzione, e magari pure alla pietas cristiana.