Tiziana Maiolo ha detto in tv qualche sera fa, sorridendo, una verità innegabile: la sinistra che cerca di minimizzare il successo del viaggio a Washington di Giorgia Meloni fa tenerezza. Così come fa tenerezza il pentastellato Leonardo Donno (quello della sceneggiata col tricolore) che asserisce che la premier non ha alcuna credibilità internazionale. Ma come si fa? Si fa, si fa. La schiera più colta e avveduta degli antimeloniani evita slittamenti sloganistici del tipo «Meloni cameriera alla Casa Bianca» e si concentra però su un altro punto: quella formula cioè del nazionalismo occidentale, fondato sull’anti-wokismo, che spaventa e non poco la cultura internazionalista della sinistra, affezionatissima al villaggio globale che Trump nei fatti ha terremotato.
E così, a partire dal Manifesto per arrivare a Massimo Giannini, è tutta una geremiade sul tipo di Occidente che Meloni vorrebbe ancora grande. Quello che nega i diritti? Quello delle autocrazie alla Orban? Quello dei valori conservatori Dio-Patria-famiglia che sarebbero viatico di una vita di m...a (do you remember Cirinnà?). Poi arriva Romano Prodi a spiegare a tutti quelli della sua parte cosa vuole fare Trump: la grande muraglia contro la Cina.
Meloni lo ha compreso e sta al gioco. E se ne prende i vantaggi, aggiungiamo noi. Perché Meloni è comunque figlia dell’Italia di Machiavelli, il quale insegnava che in politica o sei in grado di ribaltare in opportunità, in chance, una situazione disastrosa o è meglio che lasci perdere. Possiamo scommettere sull’Occidente al quale pensa Meloni (meno su ciò che il concetto evoca nella testa di Trump): l’Occidente è quello impastato di realismo politico e grandi tradizioni di filosofia politica, dove i valori conservatori non si declinano in triadi ma nella difesa della dignità della persona contro ogni forma anche ibrida di transumanesimo. Quello dove a volte capita che con un barlume di saggezza si ribadisca che i corpi non sono neutri e la natura non è astrazione pura ma realtà che condiziona i soggetti.
Meloni pensa a questo e sa che questa sua prudenza strategica può andare a braccetto con l’avversione alla Cina di Trump. Punto quest’ultimo che fa storcere il naso al fronte delle opposizioni. E perché poi? Forse la Cina non è un’autocrazia anch’essa? E non è come certificato da Amnesty il Paese dove si eseguono più condanne a morte nel mondo? E dove le condizioni di lavoro sono indecenti? Perché tanta nostalgia della Via della Seta che ha fruttato vantaggi solo al Dragone che ha portato l’export verso l’Italia da 32 a 58 miliardi? Perché, in definitiva, è possibile pensare a un’alleanza Europa-Cina contro il “bullo” Trump mentre appare addirittura eretico pensare ad accordi Europa-Usa che facciano argine alla politica commerciale aggressiva di Pechino visto che insieme detengono il 47% del Pil mondiale?
Non ci saranno risposte a questi quesiti. La sinistra si era troppo affezionata all’idea di Meloni “agente” per conto di Trump con lo scopo di disintegrare l’Unione europea. Il fatto che si parli ora con elementi concreti sul tavolo di riavvicinare le due sponde dell’Atlantico ha mandato in frantumi un’arma retorica che si riteneva potente e convincente. A sinistra non hanno mai fatto i conti con una tradizione culturale che ha innervato la destra pensante come quella militante: l’idea che l’Europa fosse una civiltà e non solo uno spazio di mercato. Meloni ha recuperato questo vecchio adagio e lo ha reso compatibile con il trumpismo che combatte il fighettismo progressista dei campus Usa. Logico che la cosa non piaccia, che la cosa preoccupi. Ma il fenomeno va guardato con grande attenzione. Civiltà occidentale contro globalismo normativo, assumere l’eredità delle tradizioni contro il nichilismo, tornare a riconoscere che le culture esistono e sono forti se non si fanno livellare. Il nazionalismo occidentale può essere anche questo. E non è poco.