Giornata da Madonna Pellegrina ieri per Maurizio Landini. Il segretario della Cgil si è recato in visita pastorale dai quattro moschettieri della sinistra, affrontandoli separatamente perché tutti insieme avrebbe avuto il sapore di un tributo collettivo al sindacalista rosso; e poi, vista l’aria che tira da quelle parti, qualcuno avrebbe anche potuto finire a litigare. Era Futura 2025, la giornata d’inaugurazione della campagna per i referendum dell’8 e 9 giugno sul lavoro. Landini ha detto che intende proporlo anche agli esponenti di centrodestra, lamentandosi che Giorgia Meloni non lo calcola come interlocutore. «Vuole comandare perché ha vinto le elezioni, non sa che la democrazia è ricerca della mediazione», accusa l’uomo che l’inverno scorso, per motivare i lavoratori allo sciopero generale, ha invocato la rivolta sociale. Il leader della Cgil afferma che, nei suoi giri promozionali, spera di incontrare anche esponenti del centrodestra. Mai mettere limiti alla provvidenza, ma non c’è da contarci troppo. Il referendum di giugno, per il centrodestra, è un classico esempio di quella che gli americani chiamano opzione “win-win”, comunque vada, ho vinto io.
I casi sono due infatti. Se il referendum non raggiunge il quorum, Landini è morto politicamente. La sua azione politica sta nel rivendicare la centralità dei sindacati rispetto alla tutela delle esigenze del popolo di sinistra e di sottolineare l’inefficacia dei partiti, che parlano ma stringono poco. Con i suoi cinque milioni e passa di iscritti, se i numeri sono veri la Cgil rappresenta da sola un settimo degli elettori, una buona partenza per portarne la metà più uno alle urne. Così non fosse, Landini avrebbe dato la dimostrazione a Meloni e soci di non contare nulla e che la narrazione del sindacato come guida dell’opposizione al governo e centro di rivendicazione sociale è una bufala. In più, avrebbe fatto alla maggioranza il favore di spaccare la sinistra, accentuando le distanze dell’alleanza improbabile tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte e tra Nicola Fratoianni e Carlo Calenda e costringendo due terzi dei parlamentari Pd a votare per abrogare norme, come il Jobs act, che hanno fatto loro quando governavano.
COMUNQUE VADA, SI PERDE
Se invece il quorum viene raggiunto, e quindi i quesiti passano perché l’opzione di una vittoria dei “No” è fuori discussione, il Pd ne risulterebbe devastato e potrebbe subito lasciare il Nazareno per trasferirsi nelle catacombe di Santa Priscilla, che stanno a Roma in corso Italia, proprio sotto la sede della Cgil. Per Elly Schlein infatti, all’opposto che per Giorgia Meloni, il referendum rappresenta un’opzione loose-loose, che vuol dire che, comunque vada, le andrà male. Se infatti la consultazione non raggiungesse il quorum, la linea movimentista della segretaria sarebbe sconfessata e la parte riformista- quella che sta più con l’Europa che con il Nazareno – marcherebbe un punto a proprio vantaggio.
Qualora viceversa il referendum passasse, la segretaria non potrebbe intestarselo, neppure riuscirebbe a salire sul podio dei vincitori. Il successo lo rivendicherebbe, anche giustamente, Landini, che cercherebbe di non condividerlo con nessuno. Un gradino più sotto ci sarebbe Giuseppe Conte, che con la Cgil ha un patto di ferro da quando l’avvocato del popolo stava a Palazzo Chigi e, a pandemia in corso, ha lasciato carta bianca al sindacato (forse anche per questo il Pil dell’Italia crollò di nove punti, peggiore performance in Europa). Il grillino voleva anche, in accordo con l’allora ministro del Lavoro, Andrea Orlando, non della stretta cerchia di Elly, far passare la legge sulla rappresentanza dei sindacati, che avrebbe dato tutto il potere negoziale a Landini. Sul gradino più basso del podio ci sarebbero Bonelli e Fratoianni, che seppure in due sono più uniti del Pd che è da solo.
E lei? Si troverebbe a fare buon viso a cattivo gioco, plaudendo al successo altrui e dovendo gestire i mal di pancia di mezzo partito. Forse l’ha capito anche lei, che dopo l’incontro con Landini si è limitata a un «siamo pronti a dare il nostro contributo per migliorare la vita degli italiani». Non che il leader grillino abbia dato al numero uno della Cgil molta più soddisfazione, sfilandosi dall’unico quesito che davvero può cambiare qualcosa, quello che dimezza da dieci a cinque anni di residenza il tempo necessario agli immigrati per diventare italiani.