Sono tre i colori nei quali una vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera ha raccolto, come nella bandiera italiana, la maggioranza e il suo governo. Assegnando il verde al vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini con l’indice contro il riarmo europeo, o come diavolo lo chiamano anche a Bruxelles, il bianco alla rassegnata e centrale premier Giorgia Meloni e il rosso al vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani. Un rosso, in verità, di tonalità particolare, oltre che inedito per il successore di Silvio Berlusconi al vertice di quello il fondatore preferiva tingere o immaginare d’azzurro quando doveva parlarne cromaticamente.
Dell’opposizione, anziché del governo, il vignettista del Corriere si occuperà magari in un altro giorno o occasione. Ma i colori ai quali dovrà ricorrere sono, come vedremo, più del doppio di quelli applicati alla maggioranza. Sono sei, il doppio, quanti i documenti proposti alla Camera sui temi della difesa e della sicurezza. Ma fra le sei componenti dell’opposizione, parlandone generosamente al singolare e fingendo di prendere sul serio l’alternativa che perseguono al centrodestra, c’è un partito - naturalmente il Pd ora guidato da Elly Schlein - che fra Strasburgo e Roma, fra Parlamento europeo e Parlamento nazionale, si divide sino a tre quando vota, ripeto, sulla difesa e sicurezza. Esso vaga fra l’astensione, il sì e il no.
Così i colori dell’opposizione, presa sempre generosamente nel suo complesso, salgono ancora e superano persino i sette dell’arcobaleno. Che sono notoriamente rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Più che alla pace, generalmente associata ad essi, bandiere e striscioni dell’arcobaleno sono sventolati o stesi nelle piazze e nelle strade, dimostrando contro il governo, per contenervi neppure tutti i colori dell’opposizione. Un po’ come quelli delle maggioranze ai tempi prodiani dell’Ulivo e dell’Unione. E dei loro programmi che entravano nelle officine, nelle tipografie ed altro, sempre di memoria prodiana, con la sola copertina e ne uscivano con centinaia di pagine. Che servivano più a fare volume che a raccogliere impegni e progetti.
Non poteva finire diversamente da come finì l’avventura di Prodi: con quella che Clemente Mastella dalla sua attuale postazione di sindaco di Benevento ha ricordato come l’ultima vittoria del cosiddetto centrosinistra conseguita nel 2006 grazie ai suoi voti campani orgogliosamente di centro. Che gli valsero la nomina a ministro della Giustizia, sino a quando i soliti magistrati ne provocarono le dimissioni e, con esse, la fine della legislatura e dello stesso, presunto centrosinistra. La ciliegina sulla torta di Prodi, oggi più o meno conteso nostalgicamente dai salotti televisivi di tendenza di sinistra, fu messa nel 2013 dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani candidandolo al Quirinale in modo tale da procurargli una rivolta di “franchi tiratori” e la bocciatura.
In questo rapido sorvolo ricognitivo della politica italiana degli ultimi vent’anni e più non deve sorprendere la leggerezza, la disinvoltura, la comicità -diciamolo pure- di una sinistra che non sa analizzare sul piano politico il fenomeno mondiale di Donald Trump, tornato alla Casa Bianca non assaltandola ma spintovi dagli elettori con un risultato riconosciuto per prima dalla sua concorrente. E, non sapendo fare analisi politica, essa ricorre alla psicanalisi dando praticamente del matto, o disturbato, o del “narcisista patologico” al47.mo presidente degli Stati Uniti. Che è appena al terzo mese, poco meno, del suo mandato quadriennale, al netto di quelli trascorsi fra l’elezione e l’insediamento. Di dibattiti televisivi a partecipazione di psicanalisti titolati e non, professionisti o dilettanti, donne e uomini, giovani e anziani, faremo alla fine un’autentica indigestione.