Giancarlo Giorgetti
L’Italia è una nave più solida che attraversa un mare in tempesta. L’innalzamento del nostro rating sovrano da parte di S&P è un eccezionale risultato del governo Meloni e un riconoscimento del lavoro svolto da Giancarlo Giorgetti, il miglior ministro dell’Economia dell’Unione europea. Non è un caso che a centrare questi obiettivi sia un ministro politico e non un tecnico, è proprio la cultura politica, la sensibilità dell’uomo di Stato, la lettura anticipata degli eventi, a creare la netta differenza con il passato. Gestire il bilancio dell’Italia è un mestiere ad alto rischio, farlo in maniera impeccabile, - migliorando i numeri e il consenso internazionale sulla stabilità finanziaria del nostro Paese - in uno scenario di incertezza, con il ritorno dello scontro tra le grandi potenze e una guerra commerciale globale in corso, è un’impresa.
Meloni e Giorgetti fin dal primo giorno hanno impostato una politica economica prudente e equilibrata, nella consapevolezza che non si tratta di una sfida sui cento metri, ma di una maratona che deve arrivare alla fine della legislatura. Siamo a metà del percorso e questi risultati arrivano nella totale assenza di spirito repubblicano da parte di un’opposizione parolaia e irresponsabile, incoraggiata da un sistema dei media che fa “disinformatia” quotidiana, guidata dalla logica distruttiva del tanto peggio tanto meglio. Le cose invece vanno meglio e devono andare avanti su questa linea perché la partita si sta complicando e il campo da gioco è quello di Washington e Pechino.
La missione di Meloni alla Casa Bianca è di estrema delicatezza per queste ragioni. E far passare Donald Trump come un matto, non aiuterà nessuno a capire che cosa sta succedendo in America, cosa pensa la Casa Bianca, quali sono le ragioni e gli obiettivi delle sue decisioni. Si dicono e scrivono cose senza senso, pochi leggono i documenti che sono all’origine della guerra commerciale aperta dagli Stati Uniti, scandagliano le idee dei suoi consiglieri (persone che non sono uscite da un manicomio, ma dall’università di Harvard e da importanti istituzioni finanziarie), uniscono i fatti che contano. Gli Stati Uniti stanno cercando di frenare la corsa pazza del debito e del rosso della bilancia commerciale, vogliono invertire un processo di de -industrializzazione che sta desertificando la società americana, indebolire il dollaro (mantenendone il ruolo di valuta globale di riserva), tenere sotto controllo l’interesse dei titoli di Stato, riequilibrare il commercio con la Cina e l’Europa, riprogrammare la spesa del Pentagono che deve fronteggiare la minaccia della Russia e della Cina. È un programma ad alto rischio, non a caso l’ho definito qualche giorno fa un «colossale azzardo», ma è quello che emerge con chiarezza dalla lettura di un documento di 41 pagine scritto da Stephen Miran nel novembre del 2024, intitolato «Guida per ristrutturare il sistema globale del commercio».
Miran è il capo del Consiglio degli economisti della Casa Bianca, viene dalla fabbrica di cervelli dell’università di Harvard, ha lavorato nella finanza, non è un filosofo dell’astrazione, è un economista capace di pensare «out of the box», in maniera non convenzionale, sostiene che le teorie e i modelli economici applicati al commercio internazionale sono sbagliati, dannosi non solo per gli interessi degli americani, ma dell’intero mondo libero. Per gli Stati Uniti è una questione di sicurezza nazionale; per noi, una sfida aperta a condividere più responsabilità con il nostro alleato storico. Il problema non è quello dei corsi azionari di Wall Street. Dazi e difesa, dollaro e debito sovrano, commercio e lavoro, disagio sociale e unità nazionale sono diventati una sola scacchiera. Trump cerca un accordo con la Cina, prima che si vada a uno scontro ancora più duro. Lo fa alla sua maniera, ruvida, scartavetrata, ma sta “parlando” al Presidente Xi Jinping, con gli atti: la decisione di sospendere i dazi su smartphone, computer, microchip, è un messaggio all’uomo di Pechino. Gli Stati Uniti ne acquistano dall’Impero Celeste per circa 100 miliardi di dollari su un totale di 438 miliardi di beni importati nel 2024. Trump ha teso la mano esentando dalle tariffe reciproche circa il 23% degli acquisti dalla Cina. Quale sarà la risposta del Dragone? La storia è maestra di vita, ma quasi sempre inascoltata. Nel settembre del 1993, Bill Clinton, da appena un mese alla Casa Bianca, si trovò di fronte a un dilemma: tagliare le spese del bilancio federale o presentare il suo piano di spesa? I suoi consiglieri gli dissero che doveva concentrarsi sul deficit e gli presentarono un piano di risparmi da 140 miliardi di dollari. Vi fu una discussione, un suo consigliere disse: «Dobbiamo conquistare voti al Congresso, non a Wall Street». Era una valutazione politica che sottintendeva: non possiamo farci intimidire dalla Borsa. Clinton scelse di non sfidare i mercati, decise di “finanziarizzare” lo sviluppo economico, puntando in particolare sul settore immobiliare, creò Fannie Mae e Freddie Mac, la cosa per un certo periodo funzionò. Ma le banche commerciali, spinte dalla macchina creata dalla “Clintonomics”, cominciarono a erogare mutui senza una ponderata valutazione della capacità di credito di chi acquistava la casa. Il finale era già scritto.
Il giochino avviato da Clinton esplose con la crisi dei mutui subprime nel 2007, una gigantesca bolla che contagiò tutto il mondo. In quel momento ero a Washington, ricordo George W. Bush nel 2008 convocare i due candidati alle presidenziali, John McCain e Barack Obama, era fallita Lehman Brothers. Quel cortocircuito fu riparato con un fiume di denaro, necessario per salvare l’industria dell’auto e le banche, ma era solo un rinvio del problema americano e degli squilibri della finanza mondiale. Ieri come oggi, il conflitto è tra «Main Street» e «Wall Street», il rebus di Trump è una sfida che viene da lontano. Il 10 novembre del 2003 Warren Buffett, il più abile investitore della storia della borsa americana, scrisse su Fortune un articolo sulla spirale della bilancia commerciale americana, sono parole che oggi suonano come una profezia: «Potremmo tutti smettere di lavorare e potremmo consegnare piccoli pezzi di carta al resto del mondo. Potrebbero continuare a mandarci cibo, potrebbero mandarci automobili, potrebbero mandarci ogni tipo di cosa. Ma alla fine, avrebbero diritti su tutta la nostra ricchezza». Buffett invitava a interrompere il meccanismo del deficit esponenziale, sintetizzando in una frase l’esito finale: «Dolore a breve termine e guadagno a lungo termine». Ventidue anni dopo, è arrivato il dolore.