Ha giustamente sollevato polemiche la risposta della presidente Anpi di Varese a uno studente di Luino che accusava i partigiani comunisti di voler abbracciare la dittatura comunista sovietica. «Ti prenderei a sberle!». Ma l’episodio è solo l’ultimo di una lunga carrellata di eventi – tra gli ultimi la lettera dell’Anpi in cui si chiedeva agli studenti di un liceo di Carpi di aderire al tesseramento – che dimostrano che l’idea dell’ex ministro di Renzi Stefania Giannini di autorizzare le lezioni dell’Anpi nelle scuole con la scusa della diffusione dei valori di democrazia, libertà e antifascismo con apposito protocollo è stata pessima, controproducente e nociva. Era il 2014 e da allora il protocollo è stato sempre rinnovato, anche dal ministro Valditara dopo un tira e molla che ha impegnato non pochi esponenti della sinistra in un luttuoso piagnisteo che ha alla fine ottenuto lo scopo. Un protocollo dunque che ha introdotto la legittimità di fare orazioni propagandistiche agli studenti. L’Anpi continua così a fare lezioni di storia nelle scuole italiane anche se non vi sono quasi più partigiani viventi che possano narrare agli studenti la loro esperienza e anche se la stessa Anpi si comporta ormai in modo chiaro a tutti come un partito di opposizione. Basta vedere sul sito i comunicati con cui su ogni notizia politica si diffondono critiche al governo e alle sue scelte.
Comunicati che mostrano la pretesa di dettare anche parole e contenuti delle dichiarazioni della presidente del Consiglio sulle giornate commemorative o sulle ricorrenze storiche legate alle tragedie della Seconda guerra mondiale. Ma c’è un altro elemento da sottolineare e che non è stato mai debitamente analizzato: se ci sono nelle scuole già i docenti di storia per quale motivo l’Anpi deve inviare rappresentanti politici a spiegare le vicende della Liberazione? Spiegandolo magari con esempi di alto livello come quello scelto nella scuola di Luino: immaginate di mangiare crocchette di pollo per molti giorni di seguito senza riuscire a andare in bagno e quando finalmente ci riuscirete avrete la sensazione provata dagli italiani liberati dal fascismo. Ma qui non c’è tanto da stare a analizzare che cosa l’Anpi va predicando nelle aule della scuola pubblica (quindi di tutti e quindi non partigiana) quanto da riflettere sul fatto che l’Anpi nelle scuole non dovrebbe proprio entrarci né dovrebbe maneggiare una materia complessa come la storia contemporanea.
Lo ripetiamo: per spiegare la storia e la Costituzione ci sono già materie preposte e docenti che hanno studiato per salire in cattedra. Docenti che possono tranquillamente far ricorso al saggio di Claudio Pavone sulla guerra civile o agli scritti del partigiano Giorgio Bocca e che hanno il dovere di far conoscere anche episodi come l’eccidio di Porzus, febbraio 1945, quando i partigiani cattolici della Osoppo furono uccisi dai rossi dei Gap perché così voleva la fedeltà a Tito. O magari potrebbero accennare alla tesi di De Felice sulla vulgata resistenziale.
Nell’insegnamento della storia la distanza è tutto e il punto di vista in un attimo trasforma una lezione in becera propaganda. A scuola si deve studiare la storia della Resistenza e non celebrare il mito della Resistenza. La prima missione è compito degli storici la seconda di associazioni come l’Anpi, ma per favore fuori dalle aule. Infatti mitizzare un evento storico, sia pure fondativo della nostra Costituzione (che risulta comunque essere frutto di un compromesso tra anima liberale, socialista e cattolica) è il peggior servizio che si possa rendere alla conoscenza storica stessa. Già il filosofo Sergio Cotta, nel lontano 1977, aveva messo in guardia contro la mitizzazione della Resistenza che «cessa di essere fatto storico, legato a una precisa situazione politico-militare, per diventare un mito». L’Anpi può ovviamente coltivare il mito, ma non pretendere di farne oggetto di indottrinamento.