I freni inibitori sono definitivamente saltati. Intendiamoci: i compagni sono sempre stati intolleranti, profondamente ostili al dissenso, animati da una pulsione irrefrenabile a eliminare il nemico (o anche solo l’ex amico). Ma, negli ultimi anni, da quando – anziché comunisti – hanno iniziato a farsi chiamare democratici, almeno cercavano di mascherare un po’ le cose, di darsi una parvenza di autocontrollo, di tenere minimamente a posto l’istinto ad aggredire e schiacciare il dissidente.
E invece, dopo la sconfitta alle presidenziali americane di novembre scorso, tutti i mascheramenti, le attenuazioni, le operazioni cosmetiche, non hanno più retto. Trump li ha fatti letteralmente impazzire, e Musk se possibile ancora di più. In un colpo solo, hanno realizzato di non essere più votati dai ceti medi e medio-bassi; hanno dovuto constatare che il loro caravanserraglio di artisti e intrattenitori non solo non convincono la common people, ma se possibile la irritano ancora di più. Insomma, non sarà finito il mondo, ma è finito un mondo: il loro, i loro salottini, le loro terrazze, la loro spocchia, la loro immotivata presunzione di superiorità.
Il vero obiettivo di Michele Serra: dare della "fascista" a Giorgia Meloni
E piano piano ci siamo arrivati. Alla fine Michele Serra ha spiegato il vero obiettivo della manifestazione di piazza de...E allora? E allora i compagni – anche i più rifiniti, anche quelli culturalmente più attrezzati – ormai “sbroccano”, “escono al naturale”, non nascondono più il volto sotto una maschera. Si prenda la rubrica di Michele Serra ieri su Repubblica. Il punto di partenza è la consueta caccia a Matteo Salvini, colpevole di aver citato Javier Milei e la sua motosega, invitando (metaforicamente) a usarla contro l’Ue. Anche un bambino piccolo avrebbe capito il senso politico della frase: aggredire la burocrazia europea, gli eccessi di regolamentazione, la normazione ossessiva e anti-crescita.
E invece l’eurolirico Serra l’ha presa malissimo: Salvini sarebbe nientemeno che un «sabotatore». Anzi, non basta ancora: «intelligenza con il nemico è l’accusa che gli spetterebbe nei paesi che ammira». Ma qui in Europa – annota forse dispiaciuto il convocatore della piazzata pagata dai contribuenti romani – Salvini «non corre alcun rischio». E come mai? Perché un odiatore dell’Unione «può perfino farsi eleggere al Parlamento europeo, nel quale non pochi dei deputati sono dichiaratamente ostili non solo alle politiche dell’Unione, ma proprio ai suoi fondamenti».
Avete letto bene. Senza fare un plissé, Serra sembra lasciar intendere che, nel suo mondo ideale, all’Europarlamento dovrebbero essere eleggibili solo gli eurolirici, gli euroentusiasti, gli euroestasiati. E gli eurocritici, gli euroscettici, gli eurodubbiosi? Fuori.
Romano Prodi alla manifestazione di Bologna? È subito figuraccia su Ventotene
Al via l'iniziativa 'Una piazza per l'Europa' a Bologna, in piazza Maggiore. L'evento, promosso...Immaginate la scena. Nel magico universo di Serra & co., al momento della presentazione delle liste, le candidature dovrebbero essere sottoposte al vaglio preventivo di una giuria di qualità: tipo i professori e i cantanti chiamati da lui per comiziare a Roma. Fatto l’esamino di europeismo, allora – forse – scatterebbe la candidabilità. Scherziamo? Saremmo davanti a una tragicomica via di mezzo tra la commissione elettorale iraniana che preseleziona i candidati escludendo quelli meno affidabili per il regime e i criteri di ammissione nel salotto tv di Fabio Fazio.
Abbiamo sorriso, amici lettori. Ma, se ci si pensa meglio, subentra una cupa malinconia. Voglio dire che siamo veramente al paradosso, nel senso che nell’immediato Dopoguerra – almeno per alcuni versi – c’era forse piuragionevolezza e ricerca di ricucitura di quanto accada oggi. Intendiamoci bene, non sto smorzando l’immensa rilevanza dei conflitti del passato. So bene, ad esempio, quanto sia stata cruciale (e violentissima nei toni, nelle parole, nei comizi, nei manifesti) la campagna elettorale del 1948; e quanto sia stata benedetta la vittoria di Alcide De Gasperi contro l’incubo di un’Italia consegnata a una cupa avventura socialcomunista. Guai a dimenticare la posta – letteralmente vitale – che fu in gioco. E però, retrocedendo un istante e ragionando sul biennio 1946-1948, consideriamo insieme alcuni fatti indiscutibili che rendono bene l’idea, pur in presenza di un contrasto politico virulento, della ricerca per lo meno di un perimetro comune accettato. Intanto, la celeberrima dodicesima disposizione transitoria e finale allegata alla Costituzione da un lato vietò sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito fascista, ma dall’altro, quando si trattò di ipotizzare limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità, circoscrisse questa eventualità ai «capi responsabili del regime fascista» e «per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione».
Insomma, perfino per gli ex gerarchi c’era l’accettazione dell’idea che potessero rimettersi in gioco, anche con diritto di elettorato attivo e passivo, dopo appena cinque anni. Ancora: nel giugno del 1946, e in quel momento il guardasigilli era nientemeno che Palmiro Togliatti, scattò un’amplissima amnistia, che cancellò i reati e i processi di migliaia di ex appartenenti al partito fascista. Di più: l’intuizione degasperiana (siamo sempre nel 1946) della festa del 25 aprile era ispirata precisamente al tentativo di pacificare. «Aiutateci» disse De Gasperi in un celebre discorso rivolgendosi in primo luogo ai partigiani «a superare lo spirito funesto delle discordie. Si devono lasciar cadere i risentimenti e l’odio. Si deve perdonare». Circa ottant’anni dopo, dove siamo arrivati? All’intellettuale di riferimento dei progressisti che quasi rimpiange il fatto che i soggetti a lui sgraditi possano candidarsi all’Europarlamento. Sipario.