Proporzioni, efferatezza, cecità ideologica: forse è stato il più grande orrore umano contro il genere umano perpetrato nella storia. È il genocidio di forse 2 milioni di vite su 7 praticato dai Khmer Rossi in Cambogia per più di tre anni, dopo avere preso il potere con la violenza a Phnom Penh il 17 aprile 1975. Già il comunismo, pallottoliere alla mano, è stato la maggiore catastrofe umana di sempre, mala rivoluzione cambogiana fece impallidire persino i suoi padrini maoisti. Nel 50° anniversario dell’inizio di quella mattanza ne va sottolineata un carattere poco evidenziata: il razzismo.Il delirio di onnipotenza s’impossessò dei suoi massimi gerarchi Pol Pot, Nuon Chea, Ieng Sary, Son Sen e Khieu Samphan, un furore la cui essenza era l’imitazione del Terrore giacobino e di Maximilien Robespierre, come hanno testimoniato tanti di loro, fra cui Suong Sikoeun, consigliere ed erede di Pol Pot, autore del libro Itinéraire d’un intellectuel Khmer rouge nel 2013. Mescolava due componenti essenziali. Primo la frugalità ostentata, imposta sì dalla catastrofe sociale ed economica provocata immediatamente dal nuovo governo, ma pure coltivata come un’ascesi perversa improntata a una caricatura malvagia di un monachesimo apocalittico, dove «il popolo» era tutto e l’individuo nulla. Secondo, un nazionalismo affettato dove il passato khmer veniva costretto nelle maglie della rilettura ideologica e aggiogato all’ideale rivoluzionario come una bestia da traino. Per questo il regime massacrò chi non vantava “puro sangue” khmer.
I vietnamiti, eterni rivali, furono i primi, ma nel pentolone infernale finirono persino i cinesi; non solo i “borghesi”, ma anche i comunisti che pure avevano ospitato i compagni khmer dopo il colpo di stato di Lon Nol nel 1970, perché ci sono sempre i comunisti più puri, di idee e di sangue, degli altri comunisti. Le minoranze furono sterminate o disperse. La furia con cui si espulsero o uccisero gli stranieri, con eccezioni che si contano sulle dita di una mano monca, e il divieto, persino l’ignoranza intenzionale delle lingue estere obbedivano alla stessa logica. Eclatante l’accanimento contro i cham, di origine malese e per lo più musulmani.
Ma tornando a studiare il parossismo rosso nell’Indocina di mezzo secolo fa si potrebbe compiere un errore grave. Quello di isolarlo, di farne un unico di esagerazione. Non è così. Il comunismo ha infatti nutrito sempre una forte componente razzista e, dove ha conquistato il potere, è di fatto stato sempre nazional-comunismo, con buona pace della retorica internazionalista e dei vati della rivoluzione permanente, ala perdente del marxismo-leninismo. Lo rendono evidente non solo le sue riedizioni nelle ubbie nazional-bolsceviche e rosso-brune, ma i regimi stessi. Sempre affetti da voglie imperialiste (gli scontri fra regimi comunisti per la supremazia regionale e mondiale sono una costante), sempre rosi dall’ansia di conquistare anche i vicini comunisti (il conflitto fra Vietnam e Cambogia comunisti lo testimonia), le ideocrazie rosse hanno coltivato il razzismo come una virtù.
Se il regime criminale di Pol Pot rimane impunito
C’è un frutteto, nel villaggio di Choeung Ek, 15km a sud della capitale cambogiana Phnom Penh, dove ai bamb...Per restare in Asia, il comunismo esacerbato della Corea del Nord vive di una filosofia nazionalista e razziale, lo Juche, degno del nazismo più rigido. La descrive bene l’accademico statunitense Brian Reynolds Myers in un libro del 2010 dal titolo rivelatore, The Cleanest Race, «la razza più pulita» (così si percepiscono i comunisti nordcoreani). Ma non vale solo per i “compagni che sbagliano”, cioè per gli “esagerati”. L’antisemitismo è stato una regola di Stalin e dell’Urss anche dopo Stalin, come diversi hanno denunciato a partire dalla figlia di Stalin stesso, Svetlana Allilueva. Senza scordare l’Etiopia, l’Uganda e il Mozambico dove gli eccessi della rivoluzione comunista sono stati lo strumento fisso delle carneficine fra etnie diverse. Il razzismo, cioè, non è stata un’eccezione malvagia del comunismo buono, ma una caratteristica tipica del male comunista.