I“soliti noti”, cioè quel gruppo di intellettuali che rappresenta la “cupola” della cultura progressista italiana, se ne sono inventata un’altra: un’ “Osservatorio sull’autoritarismo”, con tanto di Manifesto costitutivo. A dire il vero, ciò che impressiona nella lettura di questo testo non è solamente la curvatura fortemente politicizzata in senso antigovernativo. Più a monte, ciò che va constatato è l’assoluta mancanza di originalità degli estensori: si ripetono vecchie parole d’ordine, si ragiona con vecchi schemi mentali, e soprattutto si mostra assoluta incapacità a leggere il tempo presente. La crisi delle democrazie occidentali è infatti evidente, così come le pericolose tendenze degenerative in esse presenti. Il pericolo di nuove forme di autoritarismo è reale, ma esso è da ricercare lì dove i nostri non riescono proprio a vederlo. Ai loro strali antigovernativi si potrebbe rispondere punto per punto, ma il problema è a monte.
Oggi, in tutto il mondo occidentale, è dato constatare un divorzio sempre più netto fra popolo e élite, con le seconde che non riescono ad esprimere e incanalare i bisogni e le esigenze della gente comune, le cui istanze trattano invece con disprezzo e con malcelato “senso di superiorità”. È in proprio in questo scollamento che è da cercare la crisi della democrazia, ed anche un concreto pericolo autoritario. Ne abbiamo avuto diverse prove: con la gestione della pandemia; con l’attuazione di politiche come il “New Green Deal”, che ha di fatto distrutto uno dei settori portanti dell’economia europea; con l’imposizione dei dettami di una cultura, quella woke, che in nome della “inclusività” e della “non discriminazione” ha creato nuove forme di intolleranza ed eroso ampi spazi di libertà. Su tutto questo, i nostri sono del tutto ciechi: il loro è un osservatorio che... non vede! Per fortuna, le cose vanno diversamente nel mondo intellettuale europeo e anche americano, ove poco alla volta, e dopo decenni di silenzi e abbaglio, si stanno manifestando segni di nuova consapevolezza, anche fra intellettuali non proprio di destra o conservatori. Penso, ad esempio, alla categoria di “liberalismo autoritario” (espressione ossimorica e sicuramente infelice) su cui ragionano autori come Müller, Bonefeld, Wilkinson. Eredi per lo più della “teoria critica” classica, e in polemica con le evoluzioni liberal che essa ha subito con Habermas, questi autori pensano che le logiche politiche della democrazia siano arretrate davanti alle necessità economiche di potenti lobby, anche se ciò non ha dato origine a vere proprie dittature. Müller ha parlato di “democrazia limitata”, con riferimento proprio all’Unione Europea.
E che dire poi del vasto fronte di accademici che, anche in Italia, ha criticato le politiche securitarie legate alla pandemia, venendo sistematicamente ignorato dai grandi mezzi di comunicazione di massa? Non sempre si può essere d’accordo con questi autori, soprattutto quando è forte in loro un’avversione endemica al capitalismo, ma essi dimostrano di non aver dimenticato il primo dovere di un uomo di cultura: porsi domande, coltivare dubbi, cercare di capire e comprendere la realtà, anche quando non ci piace.
Da parte dei promotori dell’Osservatorio tutto questo non c’è: c’è solo l’uso di una categoria del tutto inadatta a capire l’oggi: quella di “Ur-fascismo”, cioè di un fascismo eterno e originario, che, per evidenti motivi politici, Umberto Eco si inventò trent’anni fa. Pigrizia intellettuale, incapacità congenita, spegnimento della creatività, disonestà intellettuale? Questi elementi ci sono sicuramente. Più a fondo è però presente, a mio avviso, la volontà di difendere a denti stretti un piccolo potere culturale ed editoriale conquistato negli anni passati e che, nonostante alcune timidezze e incoerenze della destra al potere, è forse oggi veramente in pericolo.