Lo scontro tra le grandi potenze, la moltiplicazione delle barriere al commercio mondiale, la riemersione delle sfere di influenza - rivendicate da nazioni che hanno la cultura e la dimensione degli imperi - sono una sfida geopolitica che chiude le porte della globalizzazione e spalanca i cancelli di una terra incognita. Oggi più che mai lo Stato per custodire la sua sovranità e avere un ruolo sulla scena internazionale deve difendere e espandere i suoi asset strategici nell’economia, nella finanza, nella difesa e nel “soft power”.
L’operazione sul capitale di Tim è coerente con questo nuovo scenario, Poste con l’acquisto del 15% delle azioni diventa il primo azionista (al 24,81%) e riporta lo Stato al centro della scacchiera delle telecomunicazioni. Sul piano industriale, dopo l’ingresso del fondo KKR, dello Stato e altri soggetti in FiberCop, è l’ulteriore passaggio di una razionalizzazione in un settore affollato, con una forte concorrenza e bassi margini, si mette la parola fine sulla storia di una privatizzazione nata senza testa, cresciuta senza profitto e morta con troppo debito.
L’operazione non piace ai liberali, ma sappiamo che in realtà sono i lamenti di camarille che pensavano di far ancora lo spezzatino dove invece lo Stato deve conservare una presenza importante, le nuove sfide impongono di concentrare alcune leve del potere, non di disperderlo o consegnarlo a potenze straniere. Il governo Meloni si muove con la bussola dell’interesse nazionale e gli strumenti del mercato, indirizza e non ordina, ha un disegno superiore che deve coincidere con la sana gestione dell’impresa e il beneficio per i cittadini.
In questa chiave, il risiko del settore bancario è di estrema importanza e urgenza. Una nazione che non ha il controllo del risparmio, che non lo difende dai raider di ogni contrada, che lascia la finanza in mano a soggetti stranieri che sono in palese concorrenza sul mercato internazionale del debito sovrano, corre un rischio letale. Per queste ragioni il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva creato le premesse per un’integrazione del Monte dei Paschi con Banca Popolare di Milano, sarebbe così nato un terzo polo bancario (dopo Intesa e Unicredit) con solide radici sul territorio, forte nella raccolta e negli impieghi per le imprese e le famiglie.
La mossa a sorpresa di Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, per conquistare il controllo di Bpm ha fatto saltare questo progetto di largo respiro, aprendo un caotico gioco di compravendite di azioni che finora ha avuto l’effetto di aumentare l’incertezza, alimentando un “boom” e uno “sboom” della quotazione di alcuni titoli finanziari. Orcel è un velociraptor della finanza, ha due operazioni aperte (per quel che ne sappiamo), una in Italia sul capitale di Bpm, l’altra in Germania per il controllo di Commerzbank, nessuna delle due è chiusa, entrambe incontrano ostacoli di natura politica (Roma e Berlino devono esprimere le loro valutazioni e non si tratta di un’operazione filosofica). In mezzo, c’è il destino di Mediobanca e di Generali, di cui non casualmente Orcel ha acquistato un pacchetto di azioni rilevante da schierare. Dove? Grande mistero, Unicredit è aun bivio. Può provare a acquistare Bpm, ma i messaggi che lancia sono ambigui (ha detto che l’operazione potrebbe essere «non più conveniente») oppure cambiare il suo piano (così scrive il Sole 24Ore). Per andare dove? Non si sa, l’unica cosa certa è il calendario: l’assemblea di Generali è fissata per il 24 aprile, e in questa occasione Unicredit dovrà decidere dove puntare i voti delle sue azioni: ha tre possibilità, la lista di Mediobanca, quella di Caltagirone, e quella dei fondi. Tre palle, un soldo. È un gioco alla Orcel, un manager da tavolo da poker, attratto magneticamente dal rischio, visto che ha mantenuto la presenza ingombrante di Unicredit in Russia a dispetto degli interventi della Bce. Mal di testa? Siamo solo all’inizio.
Uno degli ultimi veri capitani d’industria, Francesco Gaetano Caltagirone e Delfin (il veicolo finanziario degli eredi Del Vecchio, guidato da Francesco Milleri), con il Monte dei Paschi hanno aperto la caccia alla volpe argentata, Mediobanca. La merchant bank che fu di Enrico Cuccia è il primo azionista di Generali e ha presentato una lista fotocopia per il nuovo cda (conferma 9 consiglieri uscenti su 10), dunque è chiaro che se prendi Mediobanca controlli il Leone di Trieste e rimetti in mani italiane la cassaforte del risparmio.
È un asset strategico del Paese si o no?
Lo è in misura esponenziale se guardiamo dentro i bilanci e chi schiaccia il pulsante nella stanza dei bottoni. L’iniziativa di Caltagirone e Delfin è tutta italiana, ha una logica industriale (mette insieme la banca, la “fabbrica” di prodotti finanziari, le assicurazioni e il risparmio gestito), evita che una parte fondamentale del portafoglio degli italiani finisca in una società nuova di zecca con i francesi di Natixis. Eccolo qua il punto che desta l’interesse del governo, è una partita che non è solo di capitali, ma tocca le imprese e le famiglie, è una questione di interesse nazionale e sovranità finanziaria. Generali è uno dei principali compratori di titoli di Stato italiani, nel corso degli anni gli acquisti sono diminuiti (erano 62,1 miliardi nel 2021 e sono scesi a 41,4 miliardi nel primo semestre del 2023) e nello spiegare i piani con Parigi, improvvisamente, l’amministratore delegato di Generali, Philippe Donnet (che casualmente è francese e sempre casualmente è stato ripresentato nella lista di Mediobanca come ad del Leone di Trieste per un quarto mandato), ha sentito il bisogno di dire al mondo che l’operazione con Natixis non mette a rischio gli acquisti dei nostri Buoni del Tesoro.
Fatto questo giro del Monopoly finanziario, in attesa che si svelino tutte le carte, è chiaro che il governo Meloni ha giocato finora una partita che, a dispetto di quanto scrivono e dicono i commentatori «à la page», non confonde l’idea di sovranità con il “sovranismo”, non c’è alcuna presenza sovietica dello Stato nell’economia, ma c’è l’esercizio di una garanzia sugli asset strategici, l’affermazione del primato dell’interesse nazionale (e quindi anche della politica) in una dimensione di mercato. Le operazioni su Alitalia (diventata Ita e aperta al controllo di Lufthansa), Sparkle e FiberCop dimostrano che non c’è alcun ostracismo nei confronti di imprese estere, cosa che invece accade regolarmente in altre nazioni. La vera condizione è la soluzione - e non il moltiplicarsi - di problemi che si trascinano da decenni. È finita l’era dei capitani coraggiosi, dei cavalieri bianchi, dei salvatori della Patria, delle merchant bank di Palazzo Chigi e di altre finzioni che sotto e sopra avevano solo l’obiettivo di privatizzare gli utili e socializzare le perdite.