Dunque secondo Dario Franceschini per sanare “un’ingiustizia secolare” che le donne avrebbero subìto bisognerebbe per legge imporre di dare al figlio solo il cognome della madre. Si raggiungerebbe così una sorta di ritorno al matriarcato come “vendetta” storica contro l’odioso patriarcato di fatto già tecnicamente superato con la legge sul doppio cognome. Ma l’identità personale, ricordiamolo, risiede tanto nel nome quanto nel cognome. Non a caso papa Francesco ha ricordato di recente che il nome imposto al battesimo non è una semplice etichetta ma il segno tangibile del fatto che la nostra storia personale si inserisce in una storia collettiva, e questo in misura maggiore se portiamo il nome di un santo o di un congiunto defunto.
LE RAGIONI DELLA STORIA
Tra l’altro, l’uso del cognome per ogni individuo è relativamente recente: fu il Concilio di Trento a imporre ai parroci di tenere un registro dei battesimi indicando nome e cognome del neonato per impedire matrimoni tra consanguinei. In precedenza l’importante era contraddistinguere il gruppo familiare di cui la persona era parte. Tornando all’oggi, al di là della sortita filofemminista di Franceschini, occorre ricordare che il padre per secoli ha dato il cognome ai figli perché ne era responsabile da un punto di vista economico. La donna, non lavorando, era relegata al ruolo di accudimento. Un “privilegio” che oggi, in effetti, si rivela del tutto anacronistico. Sarebbe bene tuttavia lasciare la scelta a chi mette al mondo un pargolo anziché stabilire per legge il cognome dell’erede. Anche perché – e questo è il punto fondamentale – i cambiamenti radicali, quelli delle mentalità, quelli valoriali, di visione del mondo, non avvengono mai per ciò che si pubblica in Gazzetta ufficiale ma sono il risultato di una lenta sedimentazione nel tempo.
ALL’INIZIO CI FU ORESTE
Lo studioso svizzero Johann Bachofen in una ponderosa opera – Das Mutterrecht, 1861 – spiegò che prima c’è stato il matriarcato, il potere delle madri, e dopo venne il patriarcato, il cui simbolo letterario si rintraccia nell’uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste. Fu Apollo a fornire un arco a Oreste affinché potesse scacciare le Erinni che lo perseguitavano. «Le Erinni», afferma Bachofen «sostengono l’antico diritto materno (Oreste è colpevole, il sangue materno inespiabile); invece Apollo ed Atena fanno valere una legge nuova: la superiorità della paternità connessa alla luce celeste. Ciò che gli dèi sono chiamati a decidere è una lotta storica, non dialettica. Un’età crolla e un’altra sorge dai suoi resti: l’età apollinea. Albeggia una nuova civiltà opposta alla precedente. Alla divinità della madre subentra quella del padre, alla sovranità della notte quella del giorno, alla preminenza del lato sinistro quella del lato destro. La civiltà pelasgica trae la sua impronta dal preferire la maternità; invece l’ellenismo è connesso alla paternità».
GINECOCRAZIA
Dunque è sul piano spirituale e simbolico che la lotta tra matriarcato e patriarcato si svolge e si delinea. Bachofen non mancò tuttavia di sottolineare come le civiltà ginecocratiche fossero pacifiche, armoniche e tolleranti verso lo straniero. «La ginecocrazia», secondo Bachofen «sentì l’unità di tutto il mondo vivente e l’armonia dell’universo dal quale non ci si era ancora alienati; sentì con più intensità il dolore della mortalità e della caducità dell’esistenza tellurica, che la donna (specie la madre) lamentano; anelò con più fervore a un superiore conforto, che trovò contemplando i fenomeni della vita naturale e lo collegò al grembo generatore, all’amor materno che tutto accoglie, preserva e nutre». Un ritratto del potere delle madri, e della donna più in generale, che non dispiacque alle femministe le quali però ignorarono un particolare non marginale: fu Julius Evola a tradurre in Italia Bachofen pubblicando nel 1949 un’antologia di suoi scritti. Ovviamente facendo il tifo perla “virilità olimpica”.